Discutere di come il mondo della ricerca biomedica
italiana può dare il suo contributo al bene comune significa rimettere le
persone al centro. Tanto più se la discussione avviene alla Camera dei
Deputati, perché la ragione di esistere del Parlamento è rimettere le persone
al centro.
Come
Presidente della Commissione Affari Sociali ritengo che in questo momento sia
importante occuparsi di ricerca. E’ noto che in questa fase in Commissione
stiamo emendando, approvando, il testo definitivo di un importante
provvedimento di legge - che ne contiene molte all’interno di un unico testo -
e mi riferisco alla legge sulle nuove professioni sanitarie, che in realtà si
occupa anche di sperimentazione clinica e ricerca. Stiamo lavorando a rimettere
in moto, se possiamo anche dal Parlamento, una delle attività del nostro paese
come luogo principe per la ricerca, per il pensiero, per l’innovazione.
Ma,
soprattutto, questo lavoro è parte di un percorso che caratterizza la nostra
Commissione, e non da oggi: le persone al centro, la sanità pubblica, il
servizio sanitario universalistico, cioè dare quanto più possibile il meglio a
tutti quelli che ne hanno bisogno indipendentemente dal censo, dalle
possibilità dei singoli. Questo è il Servizio Sanitario Sanitario Nazionale
italiano universalistico. Ci sono difficoltà, ci sono a volte episodi negativi,
ma il nostro rimane il secondo o terzo servizio sanitario di maggiore qualità
nel mondo per tutti gli osservatori internazionali a partire da Bloomberg fino
ad arrivare alle agenzie - tutte - di rating internazionale. In moltissimi
possono raccontare storie di famiglia dove questioni terribili, difficilissime,
sono state risolte con un immenso impegno di professionisti e di strutture. Positivamente
e ‘gratis’. Una cosa che non succede più praticamente quasi in nessuna parte
del mondo. Una cosa irrinunciabile ma che ha dei costi, delle difficoltà. Sono
anni che, pur con fatica, si incrementa l’impegno: quest’anno abbiamo aumentato
di un miliardo e mezzo la provvigione disponibile del Servizio Sanitario Nazionale.
Ci sarebbe sempre bisogno di aiuti in più, ma non va mai dimenticato che l’Italia
rappresenta nel mondo un modello di salute per tutti.
Questa
salute per tutti è ben presente anche nel lavoro che abbiamo fatto come
Commissione Affari Sociali. E’ qui che si è pensata ed è maturata la legge sul
‘Dopo di noi’, con l’idea di togliere l’incubo del “che cosa accadrà ai miei
cari” che hanno i genitori o i parenti di una persona non autosufficiente
pensando a che cosa succederà quando loro non ci saranno più. Si toglie un
incubo dalle famiglie, si avvia un percorso personalizzato che potrà funzionare
anche quando non ci sono più i genitori, i parenti stretti, le persone più
vicine.
Penso
anche alla legge sullo spreco alimentare, o meglio, sulla prevenzione e recupero
degli sprechi alimentari. O alla legge sul rischio clinico, che ha aperto una
nuova fase nella riduzione della medicina difensiva, provando a dare sicurezza
a tutto il sistema in modo da garantire i pazienti - in caso di errore - e i
professionisti di fronte a un eventuale rischio, perché quando capaci e
aderenti alle buone pratiche clinico-assistenziali, non debbono avere più
quella paura che li paralizza. Ma mi riferisco anche anche allo sforzo di
ricostruire un’alleanza terapeutica, di rimettere al centro la relazione medico-paziente,
le famiglie, nel testo della legge sul cosiddetto ‘Fine vita’, che ha visto
introdurre la pianificazione condivisa delle cure, la relazione medico paziente
che torna al centro anche in premessa nell’articolo 1 sul consenso informato e che
abbiamo cercato di strappare alla sua pur necessaria, asciutta burocraticità. Un
provvedimento che la relatrice Donata Lenzi ha contribuito a far diventare per
la prima volta un testo maturo e condiviso, per lo meno in questo ramo del
Parlamento. Una legge che cerca di umanizzare il morire attenuando la
solitudine, l’abbandono terapeutico e affettivo, anzi evitandolo. Evitando
l’accanimento terapeutico senza anticipare la morte, ma togliendo quanto più
possibile il pungiglione disumanizzante del dolore e del disprezzo sociale.
Ma
la Commissione si occupa anche di prevenzione. Stiamo approvando un disegno di
legge sulle attività socialmente utili per gli anziani, cioè su come il 20 per
cento della popolazione italiana può tornare al centro. Lavoriamo per l’uguaglianza
dei diritti, per la salute come diritto umano sociale, non come concessione o
come benefit. Vorremmo incrementare la prevenzione e la riorganizzazione del sistema,
cerchiamo di operare per creare terapie intensive aperte, per introdurre
prevenzione e territorialità al posto di un sistema che ruota troppo attorno
all’ospedalizzazione, come chiave anche per combattere ad armi pari con le
cronicità, trasformando l’età più lunga, la forza degli anni in più, in
benedizione e non in paura e a volte in maledizione. Sanità pubblica, che ne usi appieno
la forza di rete capillare e di prossimità.
Il regime difensivo di una spesa a
silos - spesa farmaceutica, ospedaliera, territoriale tutte separate -nel quale
la spesa farmaceutica e territoriale medica non comunica con quella
ospedaliera, sia farmaceutica sia per DRG e posti letto, sta segnando il passo.
Non può crescere al ritmo di 5-7 per cento come sarebbe necessario in relazione
al cambiamento delle patologie e alle policronicità. Ma la spesa ospedaliera,
il numero e la dislocazione dei posti letto, devono entrare in rapporto con
quella assistenziale - senza fagocitarla - perché, per esempio, gran parte
delle cure oncologiche possono essere somministrate a casa e il bisogno assistenziale
è parte integrante della terapia e della aderenza alla stessa.
Mentre
crescono le cronicità, la speranza di vita alla nascita resta la seconda del
mondo e cresce l’innovazione farmaceutica - quella vera, non solo quella che
cura in maniera diversa e risultati simili le malattie di sempre, ma con nuove
molecole -, occorre riformare la governance
farmaceutica. E stiamo
cercando di aiutare un ripensamento della distribuzione del farmaco più vicino
alla vita dei cittadini, senza aggravio dei costo, e credo che parte della
crisi della rete delle farmacie e delle parafarmacie italiane - un dualismo confuso
che c’è solo in Italia - possa essere risolto con una differenziazione più
netta e con farmacie di servizi che facciano più parte di un Sistema integrato
di sanità pubblica, che ne usi appieno la forza di rete capillare e di
prossimità.
E
se oggi i nuovi farmaci aiutano a guarire - mi viene in mente, per esempio, l’epatite
C - e quindi a non finire i propri giorni in ospedale, può essere che la spesa
per l’ospedale debba cambiare contemporaneamente
e non dopo, per avere risorse
ulteriori per lavorare al servizio territoriale. E allora noi crediamo alla
necessità di stabilire maggiore continuità tra assistenza e sanità, in modo
che, quando è possibile, si possa stare il più a lungo possibile dove si è
sempre vissuti e quanto meno possibile in ospedale.
In
questo quadro abbiamo oggi qui, a promuovere un ragionamento attorno alla
ricerca biomedica, una delle eccellenze della ricerca della farmaceutica
italiana.
L’industria
farmaceutica italiana è la seconda d’Europa: sono 174 le aziende farmaceutiche
del nostro paese, con 64mila dipendenti, circa altrettanti nell’indotto, seimila
persone assunte recentemente nella ricerca e sviluppo e seimila nuove
assunzioni nel 2017. Una realtà che forse non tutti conoscono ma che oggi è
arrivata al 72 per cento di esportazioni. Abbiamo 700 milioni investiti in
studi clinici su farmaci innovativi ci auguriamo che tutti possano essere
davvero innovativi – nel 2016. L’export nel 2010-2015 è salito di oltre il 50
per cento, in Germania più del 40 per cento. In 10 anni è salito dal 33 per
cento al 73 per cento. L’industria farmaceutica italiana si colloca al terzo
posto dopo la meccanica e le automobili. Come sappiamo, per altri settori anni questi
sono stati anni di stagnazione o di crisi. Le denunce di infortunio dei
lavoratori nel campo farmaceutico sono calate del 41 per cento. E i morti sul
lavoro sono diminuiti del 71 per cento.
Purtroppo non è così in tanti altri settori. E questa, secondo me, è una cosa che ci dice della qualità del lavoro e del bene comune, ed è confortante che le uscite dal mercato del lavoro in questo settore siano meno delle nuove entrate e che ormai il 30 per cento dei nuovi ingressi siano al di sotto dei 30 anni. Molti laureati, molto futuro.
In
questo contesto è opportuno ricordare che attualmente, in Commissione, stiamo esaminando
gli emendamenti alla legge sulle nuove professioni sanitarie. Ne abbiamo
approvati alcuni che, per esempio, permettono la brevettabilità della ricerca
non profit, rimborsando lo Stato delle mancate entrate rispetto alle
agevolazioni concesse alla ricerca non profit, una cosa che potrebbe dare
speranza a tanti ricercatori. Abbiamo anche approvato un primo meccanismo che prova
a creare un circuito virtuoso per la ricerca pubblica: se una ricerca nasce in
ambito pubblico un politecnico, un centro di ricerca pubblico o universitario,
gli IRCCS , nel caso in cui porti a un possibile utile perché
arriva una fase in cui il mercato può assorbire quel prodotto e qualora entri nel
circuito del Servizio Sanitario Nazionale, nel circuito dell’utilità pubblica,
si prevede che una compensazione o un ritorno possa andare ai centri di ricerca
pubblici nei quali quella ricerca è nata. O a un fondo di ricerca pubblica
presso il Ministero della Salute. Sono segni di cambiamento che la nostra Commissione,
e il lavoro che abbiamo fatto, hanno cercato e stanno cercando di portare
avanti.
E
proprio alla luce di tale quadro complessivo penso - e con questo concludo -
che l’incontro di oggi sia utile perché ci offre elementi in più per riflettere
sullo stato della ricerca biomedica e sulla sua utilità per il bene comune.
Intervento al
convegno “Come il mondo della ricerca biomedica italiana può dare il suo
contributo al bene comune”, promosso da Chiesi Farmaceutici presso la sala Aldo
Moro della Camera dei Deputati