Mario Marazziti - Pagina Ufficiale

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martedì 9 maggio 2017

Cyberbullismo, la legge è in dirittura d'arrivo. Va vinta una battaglia che è educativa prima che repressiva


Siamo ormai in dirittura d'arrivo su una legge importante come quella sul cyberbullismo, rispetto alla quale con la Commissione Giustizia e la Commissione Affari Sociali della Camera abbiamo lavorato per molti mesi. In questa legislatura daremo dunque una prima risposta a un tema di estrema rilevanza e urgenza. 

Avremmo voluto produrre un testo di legge che sostenesse le famiglie nel districarsi nella vasta area del bullismo, che è ancora più ampio, ed è ancora forte, è diffuso nelle scuole. Ma credo che questo primo provvedimento, limitato ai minori e al cyberbullismo, sia qualcosa che aiuterà il paese, le famiglie e tutti noi.
Bullismo è una grande malattia. E’ il segnale di un malessere del paese, di un malessere anche dell’Occidente, è un problema educativo gigantesco. Moltissime le cause. Scuola, famiglia, agenzie educative, crisi, modelli, paura, insicurezza, solitudine, frammentazione sono tutte cose che entrano in campo e scatenano il problema del bullismo e del cyberbullismo.

Il problema del cyberbullismo ha una sua specificità: la rete. La rete è un mare; il mare è straordinario, di mare si vive, senza acqua non vive il mondo, ma nel mare ci sono anche tanti pericoli. C’è una questione di alfabetismo e analfabetismo, e c’è un analfabetismo che colpisce soprattutto gli adulti, e cioè gli educatori, su questo terreno particolare. C’è un gap educativo.

Su questo terreno difficile ci aiutano istituzioni importanti, come corpi specializzati, come la polizia di stato, la polizia postale, ma in questo caso siamo sempre al momento in cui già forse un comportamento deviante si sta manifestando. Non siamo all’origine, non siamo al prima, non siamo al quando ancora il comportamento deviante non si è manifestato, quando possiamo prevenire: c’è un gap educativo, c’è un problema.

Ma la specificità del cyberbullismo è anche quella di identità virtuali. Stiamo parlando di una caduta del senso di rischio negli adulti, negli adolescenti e – ancora – nei pre-adolescenti, perché la rete crea un senso di minore responsabilità. Non si ha immediatamente il senso della conseguenza dell’operazione, delle proprie parole, dei propri sentimenti, e non si vedono le conseguenze dall’altra parte. E’ come se si ritenesse di essere invisibili, invulnerabili, ma anche senza responsabilità dirette. Il linguaggio che si può usare in rete può essere estremamente più violento del linguaggio reale, quando si vive una situazione diretta e si percepisce una reazione reale.
E noi qui stiamo in un settore epidemico. Tutte le inchieste – fatte da Microsoft o altri enti - dicono che, nella propria esperienza adolescenziale e giovanile, almeno metà degli interpellati dice di aver percepito comportamenti problematici nei propri confronti: dalla molestia alla minaccia, all’aggressività. Quindi stiamo parlando di un fenomeno pervasivo. Pervasivo quanto è pervasiva, a volte, la piccola violenza quotidiana. A volte c’è magari la stessa maleducazione quotidiana che si presenta nella vita di tutti i giorni, ma proprio perché nella rete si pensa che non vi siano conseguenze, si può arrivare invece a conseguenze molto gravi.

Rileviamo una grandissima gamma di comportamenti devianti, dalla minaccia che può implicare il sexting al razzismo, alla violenza personale. Il materializzarsi di un potere di ricatto, il potere di distruggere la reputazione e quindi il conquistare potere sulle altre persone. Avviene fra adulti su bambini, fra giovani su giovani, più grandi su più piccoli, pari su pari.
In tutto questo si pone il problema della responsabilità genitoriale. Ma la responsabilità genitoriale non ha la competenza sul mondo virtuale. Noi dobbiamo dunque lavorare per affinare una responsabilità genitoriale capace di interagire e di avere una competenza virtuale, o rischiamo – o i genitori rischiano – di intervenire solo su una parte del percorso educativo e formativo dei ragazzi. Senza questo, credo che la nostra società sarà molto più debole, molto più fragile.

Un altro problema specifico del cyberbullismo è che spesso l’aggressore è anche vittima. E’ vittima di un’idea di violenza, è vittima di se stesso, è vittima di una banda, di una piccola gang, la quale magari lo mette alla prova chiedendo di operare su altri con comportamenti simili. Spesso chi fa del male è anche chi ha ricevuto del male, o rischia di subirlo, o chi sta ricevendo del male. Vittima e carnefice sono spesso molto giovani e sono parte dello stesso problema.

Da qui una prima considerazione: vincere questa battaglia non passa attraverso la pura repressione.  E’ un immenso problema educativo. C’è un problema di capire il bene e il male, e quindi la questione delle sanzioni. La legge cerca di intervenire sulle sanzioni senza andare sulla repressione, mettendo al centro il tema educativo. Perché, se anche vi fosse un comportamento gravissimo a 15 anni, noi vogliamo che quella persona sia segnata tutta la vita - sessanta, settanta anni - da quel comportamento gravissimo vissuto in maniera irresponsabile in quel periodo della sua vita? Oppure abbiamo la necessità che qualunque repressione debba semplicemente essere un surplus di educazione e di percorso rigenerativo? Questo è il percorso che noi pensiamo e dobbiamo seguire. Chi pensa che il problema sia solo la repressione arriva tardi, parla solo della rimozione dei contenuti, non interviene sul percorso educativo, non offre soluzioni o sostegno educativo alle famiglie e ai ragazzi.


Tantissimi dichiarano di aver assistito ad episodi di bullismo o di sapere di cyberbullismo rispetto a coetanei, ma non intervengono, per paura. Perché non sanno con chi parlare. Allora è decisivo fare una scelta,  secondo me pedagogica, pratica, organizzativa, politica: la scelta di lavorare per formare coetanei autorevoli nelle scuole, nei luoghi di aggregazione giovanili; figure autorevoli di pari che abbiano un fascino superiore a quelle che esercitano invece un appeal negativo.
Dobbiamo investire nel sostenere figure autorevoli di pari, che siano – eventualmente anche in chiave organizzativa – dentro le scuole, uno per classe. Non il capoclasse, che sa tutto, ma colui che è saggio, è apprezzato dagli altri, è intelligente. E lì fare un investimento anche di formazione perché questa possa essere la prima persona con cui chi ha un problema si confida. Per la prevenzione questa è una delle cose più importanti. Poi dentro le scuole ci sarà l’insegnante dedicato, l’insegnante che si forma, ma noi sappiamo che spesso i ragazzi – sempre i più piccoli – hanno timore ad andare da un adulto a confidarsi. Per combattere un fenomeno che assume incidenza sempre maggiore abbiamo dunque necessità di creare un infrastruttura di saggezza e sapienza informatica, che si incarni in autorevolezza per agevolare le richieste di aiuto.


Infine, altre due considerazioni. La prima. Mi colpisce il fatto che moltissimi adolescenti abbiano uno smartphone col contratto. Il contratto però lo fa l’adulto, perché sotto una certa età il telefonino non può essere acquistato. Secondo me, c’è una generazione di adulti che ha timore di chiedere troppe cose ai propri figli, che è spaventata di sapere troppo, di chiedere troppo, di entrare troppo nella vita dei propri figli. Ma io credo che potrebbe essere da studiare la possibilità per cui, se il contratto è fatto da un adulto, vi sia un back up automatico per i genitori, soprattutto per quanto riguarda le chat, anche se non solo. Si può cioè ragionare se, dal punto di vista educativo, incoraggiare i genitori a tenere un back up automatico quando si attiva un nuovo sito con un telefono che viene attivato con il proprio account.

La seconda. Io ho invitato grandi soggetti, come Facebook, Google e altri: stiamo ragionando, anche con Paolo Beni, sulla possibilità di ottenere una procedura grazie alla quale, mentre si è in chat, si possa fare ricorso a un meccanismo semplice – magari semplicemente la possibilità di digitare un tasto di allerta - che autorizzi alla lettura della chat stessa nel caso ci si senta vagamente insicuri. Per intendersi: non è detto che siano presenti contenuti aggressivi reali o reati o crimini reali. Ma scatta una segnalazione. E in seguito alla segnalazione un grande soggetto, come per esempio Facebook, prende in considerazione la cosa e può eventualmente intervenire, annullare e chiudere un account. La gran parte dei problemi avvengono in diretta e avvengono in chat, non avvengono con contenuti scritti permanenti. Allora occorre valutare se non possa esserci la possibilità di andare a guardare. E’ una domanda anche alla Polizia di Stato. Esiste senza dubbio una questione di privacy. Si tratta però di capire se non si possa prevedere un sistema semplice per cui se si schiaccia un tasto “Help” questo autorizzi almeno a guardare cosa sta accadendo ed eventualmente intervenire.