Mario Marazziti - Pagina Ufficiale

Mario Marazziti - Pagina Ufficiale

lunedì 13 marzo 2017

DAT, una legge possibile e migliorabile. Un diritto mite per costruire nel dialogo le soluzioni migliori per tutti


Intervento nella discussione generale della legge su DAT e Fine Vita

Presidente, Colleghi deputati,

un giornalista-scrittore svedese. Carl-Henning Wijkmark alla fine degli anni ’70 pubblicò un libretto corrosivo, La morte moderna, che racconta di un simposio di due giorni di immaginarie autorità scientifiche e politiche svedesi di fronte al tema: “il crescente numero di anziani”, che “rende insostenibile l’economia del Paese”. Nel libretto si diceva: “ci vorrebbero più morti”. “Ma come fare? Morire è considerato innaturale. Adesso più che mai”. Si diceva:  “La radice del male non è in primo luogo che l’eutanasia sia illegale, ma che lo sia perché in così pochi chiedono l’eutanasia”. Naturalmente c’era chi obiettava. E anche la risposta: “Non abbiate timore, non mi sono dimenticato di Hitler, non stiamo programmando nessuno sterminio di massa di anziani e handicappati e altre bocche inutili da sfamare”. La conclusione è “rendere la morte di nuovo attraente, desiderabile, e la domanda di eutanasia spontanea”. La via democratica. Claudio Magris commentava a proposito di mancate vaccinazioni ai bambini down, destinandoli a una “pressoché sicura morte, ciò “ è sentito come un atto di misericordia verso i genitori…e la dipartita dell’anziano convinto ad andarsene viene programmata come una festa in suo onore e una sconfitta della solitudine della vecchiaia”. Siamo in questo tempo. Per questo quella che abbiamo davanti è una legge difficile.
Riguarda tutti noi, i nostri cari, nonni, padri, madri, fratelli, sorelle, amici, noi stessi, i nostri figli, chi verrà dopo di noi. Tocca la vita, il senso della vita, come la attraversiamo, le nostre idee sulla vita, dentro una società in grande trasformazione. Milioni di storie diverse e simili. E tutti noi, periodicamente, siamo stati immersi e sommersi nelle storie drammatiche delle decisioni difficili, alcune più famose di altre, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, oggi Fabiano Antoniani, altri. Storie tutte diverse, ma che sono state percepite come una unica grande storia. Per tanti queste storie tutte diverse, che riguardano l’eutanasia, il suicidio assistito, gli stati di coscienza acuta o di completa incoscienza, il morire con dignità, il dolore e i modi per combatterlo, la medicina palliativa, la cultura dell’accompagnamento di chi vive e del morente, rappresentano una, unica forte, troppo semplificata, domanda di legge.

Siamo su un confine sottile. Dignità del vivere e del morire. Ma non c’è una linea chiara. Dipende dalla cultura, dalle convinzioni personali e sociali, dalla storia personale, dagli incontri umani, che in qualunque momento possono farci cambiare idea anche rispetto a convinzioni profonde, in un senso o nell’altro.

E poi: siamo nella storia, in una storia che cambia rapidamente, cambia  con il progresso scientifico e tecnologico, che arriva fino alle fasi ultime della vita. Cambia nell’organizzazione sociale. Cambia per le malattie che ci accompagnano negli ultimi decenni della nostra vita, tante croniche, nessuna decisiva. Perché abbiamo gli anni in più, la più grande conquista dell’umanità, questa età più lunga, cui le nostre società occidentali non sanno dare un senso: e da benedizione rischia di essere un tempo di naufragio, non amato socialmente, e trasformarsi in maledizione.

La legge che abbiamo davanti tocca tutte queste trasformazioni, ci sta dentro. Lo mostra la confusione del linguaggio e del dibattito pubblico. Perché il linguaggio, a volte, precede e non segue i comportamenti. Si parla spesso di “qualità” della vita e di “dignità “ della vita e del morire.

Quando lo diciamo sembra che sappiamo bene di che si parla, ma non è così. Quando è che una vita ha “qualità” o la perde al punto da non essere più vita? Grandi italiani, come Indro Montanelli, Umberto Veronesi, attribuivano alla capacità di ragionamento, non comune nel loro caso, un tratto distintivo della qualità e della vita stessa. Perdere l’autosufficienza, non essere in grado di controllare le proprie funzioni fisiologiche, o l’uso delle proprie gambe per alcuni lo ritengono non più “dignità della vita”. Per altri, tanti, questo tempo della vita, in cui si dipende di più dagli altri, se accompagnato con tenerezza, acquista invece un sapore aggiuntivo di vita buona, dove tutto diventa relazione, calore, persino piacere o momento atteso, perché più affettivo. Un limite, un handicap importante, non vedere più, non camminare più, non assaporare più aree della vita che caratterizzano con forza, piacere e vitalità gli anni giovanili, per alcuni suona insopportabile, un segno evidente che quella “non è più vita”. Anche se tutti lottiamo per i diritti dei disabili, anche gravi, come con la legge sul Dopo di noi, di cui sono orgoglioso. E le pari opportunità.  Dove tracciamo la linea? Come fare una legge che mentre tutela alcuni può diventare – anche involontariamente - uno strumento terribile a danno di altri e proprio dei più deboli?

Domande che sono dentro ognuno di noi- “La morte è diventata un tabù. Non solo ormai è normale morire in solitudine ma non si può neppure più parlare della morte”. Eutanasia, buona morte, morte “dolce”. “lasciatemi andare”. “Fatemi andare”. Una linea sottilissima. Si può fare una legge su questa linea sottilissima? Il rischio di doverla allargare, perché troppo sottile, c’è stato, c’è. Lo dobbiamo evitare. C’è anche la richiesta, in condizioni particolari, di ricevere la morte, un suicidio assistito.

Abbiamo fatto una scelta, che è una bussola. Non vanno fatte leggi sui casi estremi. Ma leggi per tutti. Evitando lacerazioni e di fare prevalere solo un polo del problema.
L’autodeterminazione e la libertà di scelta della persona da un lato, la responsabilità medica dall’altro, ad esempio. Come ricostruire una alleanza e non una concorrenza, come evitare il paternalismo medico e valorizzare di nuovo la responsabilità, sia della persona che del medico? Medico come esecutore di volontà altrui? Disposizioni Anticipate, anche quando queste appaiano troppo rigide e non applicabili al caso concreto? Ho presentato un emendamento, su questo punto, ragionevole, che non intacca la libertà di scelte, per evitare però una gabbia troppo rigida.

Questa legge si muove in una società reale, non ideale. Una società frammentata, individualista, conflittuale, dove le solitudini e gli abbandoni sono molti. Dove la desistenza terapeutica è più frequente, verso i poco autosufficienti, dell’accanimento terapeutico. Ma se ne parla meno. E’ cresciuto il senso, forte, delle libertà individuali. Una società con poche parole sulla malattia e la debolezza e molte parole sulla bellezza, l’efficienza, la non dipendenza in un mondo sempre più interdipendente.
La vita è un bene individuale o relazionale? O tutti e due?
La via più semplice per il legislatore sarebbe una legge che sancisse, secondo lo spirito del tempo, il primato assoluto delle preferenze e scelte individuali. Ma sarebbe una scorciatoia, perché stiamo facendo una legge per oggi e anche per domani. Dobbiamo, anche attraverso questa legge,  accompagnare nella debolezza, umanizzare il morire quanto si può, favorire la riduzione dell’isolamento e disperazione, fare crescere una “cultura dell’accompagnamento”.
Si dice: l’Italia è arretrata, ancora, perché non è al passo con l’Europa dei diritti. La drammatica vicenda di Fabiano, DJ Fabiano, si è detto,  conteneva un diritto negato: quello di morire.

Ma c’è una differenza radicale tra desideri e diritti. Non ogni desiderio è un diritto. O riguarda lo Stato.
Una società che si fondi sulla giustapposizione dei tanti desideri individuali – macchine desideranti, diceva Michel Foucault - è destinata a sgretolarsi e smette di essere una società. Gran parte dei nostri desideri, anche se forti, sono indotti, in una società del consumo: erano le prime letture da adolescenti impegnati, forse se ne è persa memoria.

Fuori c’è chi manifesta per fare pressione. Penso che su questo, anche se milioni manifestassero, qui in Parlamento avremmo la responsabilità di una buona legge, perché ad alta voce non se ne fa mai una buona. Non è solo la folla di Gesù o Barabba, che sceglie male. Sono le folle che di fronte a delitti efferati chiedono linciaggio, pena di morte, sangue, rappresaglia, vendetta. Ma proprio per questo esistono le leggi. L’Europa ha nella sua Carta Fondamentale il rifiuto della pena di morte e così l’Italia, che l’ha cancellata dalla Costituzione. Proprio per i tempi in cui lo spirito del tempo parla per desideri e umori.

Ho osservato eri su Avvenire quale contraddizione sia nel fatto che nel suicidio assistito di Fabiano sia stato usato il pentobarbital, il farmaco che in questi giorni viene usato a ripetizione in Arkansas per 8 esecuzioni capitali, proprio perché sta per essere vietato in tutte le esecuzioni capitali, dopo che io personalmente, con la Comunità di Sant’Egidio e il governo italiano, assieme a qualcuno di quelli che oggi accompagnano a morire con dignità in Svizzera riuscimmo a bloccare nel 2011, a mettere fuori legge, a eliminare il pentothal. Ci fa orrore il pentobarbital delle esecuzioni capitali e non fa orrore il pentobarbital dei suicidi assistiti. Contraddizioni radicali.

Abbiamo qui una legge sul Consenso Informato, le Disposizioni Anticipate di Trattamento e la Pianificazione Condivisa delle Cure.

No può e non deve essere la legge dei “laici” o dei “cattolici”, come recita la rappresentazione classica. Da una parte i fautori dei valori “non negoziabili” e dall’altra la modernità inarrestabile e i diritti dell’individuo, quasi fossimo di fronte all’esito naturale delle rivoluzioni francese e liberale nel XXI secolo. Non è così.

Non è negoziabile il valore della vita, non è negoziabile neppure il rifiuto della guerra, assoluto, la necessità di non creare milioni di profughi, di vittime, di abusi della dignità e della vita delle persone, non è negoziabile non lasciare morire i bambini nel Mediterraneo o nelle foreste birmane come i Rohingya. Non è negoziabile il diritto all’acqua, al cibo, ad avere accesso alle cure: la giustizia non è negoziabile. Quasi tutto è non negoziabile.

Poi c’è la responsabilità della politica, di costruire nel dialogo le soluzioni migliori, più praticabili per tutti. Nel negoziato. E’ lo spazio del Parlamento, la nostra responsabilità, che non può essere sostituita dagli umori della gente, dai giornali, dai blog o dalla piazza, dai libri sacri di ogni religione o delle religioni civili. Non ho nessuna intenzione di cedere su nessuno dei valori non negoziabili. Non mi sottrarrò, con il mio gruppo di Democrazia Solidale-Centro Democratico, io personalmente e nel ruolo di presidente della Commissione Affari Sociali che questo Parlamento mi ha assegnato,  fino alla fine, per aiutare a fare la migliore legge possibile. Per garantire che si sia meno soli nel morire, malati e famiglie, che si sia accompagnati, che la dignità delle scelte personali sia rispettata in maniera profonda. Né accanimento terapeutico, né abbandono terapeutico, né  eutanasia.
Norberto Bobbio sul Corriere della Sera l’8 maggio 1981 – era la vigilia di un’altra difficile scelta di legge che toccava la vita” – chiedeva. “ Quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il “non uccidere”. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore d affermare ch non si deve uccidere”.


La sfida è quella della dignità, la dignità del vivere, e anche del morire. Non c’è solo l’atto o l’attimo del morire. Siamo arrivati a questo dentro una intera storia dell’Occidente. Dalla morte come compagnia quotidiana, ma in un mondo ampiamente indifferente ai corpi, con fosse comuni o corpi consegnati alla Chiesa per la sepoltura, alla morte “addomesticata”, come la chiamava Philippe Aries. Poi l’umanesimo, la morte “teatrale” o “barocca”, affascinante, attraente, fino alla svolta romantica, con la paura della morte e della morte apparente, la scienza che interviene a dire le modalità per evitarlo, e poi l’isolamento, gli spazi appositi, medicalizzati, ospedalizzati.

E oggi? Geoffrey Gorer dice che c’è una “pornografia della morte”, con il tabù della morte che ha preso progressivamente il posto del tabù sul sesso e la sessualità. O “la morte negata”, nelle maschere dei defunti americani, artistiche, quasi a negare la frattura della morte stessa e a perpetuare “l’illusione della vita” . Vladimir Jankélevitch, invece, 50 anni fa, dopo la seconda Guerra Mondiale, dopo la Shoah, una quantità inaudita di morte sul nostro continente, arrivava a dire che noi su questo tema rimaniamo sempre “al di qua” e che la morte stessa resta “impensabile”, in altre parole, che resta uno spazio e una soglia di mistero.

In questo “al di qua” se c’è un tabù, oggi,  è quello del dolore, da prendere invece sul serio.  Il dolore a volte si impossessa di tutto il corpo e della mente e non rende più liberi: ma abbiamo una medicina del dolore, palliativa (il pallio è il mantello che protegge, come quello di San Martino) per spuntare le armi del dolore. C’è a volte un legame tra la voglia di farla finita e il dolore che crea disperazione, come pure quella condizione di chi pensa che non ci sia più vita perché no  ci si piace più, o si è troppo soli.

“Né rinuncia, né abbandono, né accanimento”, e occorre combattere contro solitudine e dolore, causa di disperazione e di perdita della dignità di ognuno di noi. Con questa legge stiamo cercando soluzioni semplici ma non semplificate.


La vita non è mai solo un bene individuale, è, sempre, anche, relazionale. Nei discorsi semplificati di questi giorni dipendere dagli altri è stato spesso indicato come un buon motivo per ritenere la vita “non degna” di essere vissuta. Ma è la grande – inconsapevole - bugia dei nostri tempi, in una società, che a volte crede alle favole. Anche perché noi dipendiamo sempre da qualcuno, non solo da bambini, e questo ci fa crescere come l’indipendenza da imparare.  Tutto quello che di meglio c’è al mondo e e più di valore è dipendenza: l’amicizia, l’amore, contare per qualcuno. Cambiano i modi, l’intensità, le forme. Si potrebbe dire il contrario. Che anche non dipendere mai da niente e da nessuno è una solitudine insopportabile, indegna di una vita civile.

Allora che legge abbiamo davanti?

Non abbiamo bisogno di una legge sull’eutanasia attiva o passiva. Lo stato non può entrare nel suicidio.  La comunità, se può, lo evita e cerca di aiutare. Non a morire.
La legge deve garantire su temi eticamente così rilevanti tutti i cittadini nel modo migliore, anche quando siano portatori di visioni filosofiche o religiose diverse, varie. E’ quanto la Costituzione rappresenta al meglio, quando mette al centro dell’intera Carta la “persona”. E così l’art.32 può recitare: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti del rispetto della persona umana”. Era viva la memoria degli esperimenti medici forzati, non solo sui disabili.

Questa legge deve tutelala vita e la salute e aiuta a combattere dolore, sofferenza, isolamento, disperazione, accompagnando nella maniera più dignitosa possibile una persona a morire, quando è il tempo, nel rispetto profondo delle convinzioni e delle volontà della persona stessa.  Per questo è importante il testo approvato in Commissione su questo punto: chiaro fin dall’art.1, al primo comma, quando si citano  gli articoli  2, 3 e 32 della Costituzione e i primi tre articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, una salvaguardia della inviolabilità e della dignità della vita umana assoluta, che comprende anche il rifiuto della pena capitale, nel rispetto radicale della libertà della persona.

Abbiamo fatto in Commissione la scelta – e ne do atto a tutti i membri della Commissione Affari Sociali, a partire dalla Relatrice – di una legge non onnicomprensiva, per un “diritto mite”, perché non può essere chiusa in una casistica la vita e la frontiera mutevole del “fine vita”.
Un perimetro, una cornice meno incerta, che lascia troppo soli e troppo nella necessità di intervenire attraverso la magistratura nei casi controversi. Abbiamo approvato da poco la legge che fornisce un quadro di maggiori certezze sul rischio clinico. Oggi entriamo sul terreno più difficile.
Alcune formulazioni trovate assieme sono già un punto di incontro positivo:
-Nel consenso informato il tempo dell’informazione del malato, tempo di cura e non di burocrazia e medicina difensiva.
-L’accompagnamento e la cura al centro.
-L’equilibrio trovato tra libertà di scelta e rispetto della relazione medico-persona, in maniera non contrapposta.
-La “pianificazione condivisa delle cure”, l’art.4. Quando c’è una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta la “pianificazione condivisa” super le DAT, in un quadro innovativo, che risolve in radice il possibile conflitto tra la volontà del malato e quella del medico, su ciò che va intrapreso, fatto, non fatto o interrotto. Anche sulla linea sottile. Era il centro del disegno di legge che portava la mia prima firma e quella di altri colleghi. E’ stato raccolto dalla Relatrice e anche dall’opposizione. Ne sono contento.
-La vita dei disabili gravi, dei minori, delle persone interdette o inabilitate mi sembra tutelata nell’accompagnamento anche in circostanze dolorose o estreme.

Resta il problema, non piccolo, sul tema dell’idratazione e alimentazione assistita. Se sia, così com’è scritto ora, una porta involontaria all’eutanasia passiva. Ci sarà scontro. Ma una via di incontro è possibile. In tal senso presenterò e presenteremo emendamenti che nulla vogliono togliere all’autodeterminazione, ma che non si accontentano di affermazioni lapidarie e a rischio, quando si facesse pendere la loro interpretazione tutta sul piano delle cure o tutta solo sul piano assistenziale. La vita e la fine della vita non sono bianco e nero. Anche su questo non si tratta di vincere, partito della vita contro partito della morte, o partito della libertà di scelta contro partito degli amanti del dolore. Possiamo e dobbiamo trovare un equilibrio che contempli la possibilità di rifiuto, rinuncia e interruzione anche dell’alimentazione o idratazione artificiali quando si configurino come trattamenti inutili, troppo gravosi o sproporzionati, il cui effetto sia il solo mantenimento artificiale della condizione vitale. Non: “sempre” o “mai”.
- La terapia del dolore e la sedazione profonda continua, quando la vita sia davvero verso una fine ravvicinata, accompagnata da dolori incomprimibili e refrattaria  alle terapie, mi auguro verranno esplicitamente richiamate, come da emendamenti che ho presentato, anche se è già implicitamente previsto  dalla legge 15 marzo 2010, n. 38, sulle cure palliative. La figura del “fiduciario” è chiave quando non si è più in grado di intendere o di volere.
A mio parere il testo, che pure nella forma attuale ritengo migliorabile e per questo abbiamo depositato alcuni emendamenti, in particolare uno più esplicito sulla fine della vita, sull’ostinazione irragionevole delle cure e sulle cure palliative, per liberare il consenso informato dell’art.1 da qualche confusione possibile o da sovraccarico, è già migliorato nel lavoro di Commissione. Con maggioranze diverse.
Andranno ancora perfezionate le circostanze, limitate, in cui le Disposizioni anticipate potranno essere disattese, introducendo oltre al caso, già previsto, di nuove terapie, non conosciute all’atto dell’estensione delle DAT, anche quando le stesse DAT siano manifestamente non conformi alla condizione clinica della persona, nel tempo in cui vengono prese in considerazione, e quando vi siano fondati motivi per ritenere la perdita di coscienza del dichiarante, le sue capacità cognitive, e anche l’efficienza di organi e funzioni citati nelle DAT conseguibile, che sono poi i casi di rischio improvviso di vita e perdita di coscienza temporanea, come può essere uno shock anafilattico. Una gabbia meno rigida, che non tolga nulla alla autodeterminazione profonda della persona. E che non comprima la professionalità del personale sanitario.

Sono personalmente contento di avere permesso e contribuito all’approfondimento reale dei problemi, nel metodo di lavoro, con l’apporto di tutti, come è stato sottolineato da maggioranza e opposizioni nel mandato alla Relatrice. 33 ore e mezza di votazioni su 288 emendamenti segnalati, 5 settimane di lavoro, dopo i primi 2800, in gran parte ostruzionistici,  ammessi. Dopo due legislature, 16 nuovi testi di legge, un testo-base unitario di partenza elaborato da maggioranza  e opposizione senza prove di forza, penso che questa legge è possibile. E che migliorala ulteriormente è possibile. Non con prove muscolari, ma con un ultimo sforzo di ragionamento e di dialogo. Senza campagne elettorali. Anche perché il Paese, i nostri concittadini, hanno diritto, ma anche bisogno di capire, e le cortine fumogene non aiutano. E’ quanto abbiamo già fatto, almeno nel metodo di lavoro in Commissione. Adesso andiamo in mare aperto. Nel primato della coscienza. E del bene comune.