Quando l’Italia fu
condannata dalla Corte europea con la sentenza Torreggiani i detenuti erano
65.905 mentre i posti erano 46 mila. Oggi sono 54.912 e i posti sono diventati
50.062. Il tasso di sovraffollamento,
grazie al lavoro del Governo e del Parlamento, è sceso dal 146% al 109%, meglio
della Francia, 119 e della gran Bretagna. Le misure alternative sono
raddoppiate, in tre anni, da 21 mila a 40 mila. E’ un indice positivo, vuole
dire che si può costruire sicurezza senza ricorrere al carcere.
Rimane,
sintetica, icastica, la ferita dei suicidi accertati in carcere per porci con
serietà la domanda di oggi: Pena e Speranza”. 920 persone che si sono tolte la
vita, 920 suicidi dal 2000, quando ce ne furono 61, alla punta terribile del
2009, 72, per poi scendere a 66, 60 nel 2012 e a 49, 44, 43 da quando questo
Parlamento e il Ministero della Giustizia
hanno messo mano al sistema carcerario in maniera significativa, e,
speriamo che non si aggiungano altri ai 33 che si erano tolti la vita fino a un
mese fa. In realtà le morti che avvengono in carcere – e il problema della
salute in carcere mi chiederà qualche parola più precisa, fra poco – sono molte
di più. Tra di esse, inutile nascondercelo, c’è cattiva salute, sanità
disuguale, violenza e overdose di droghe. 2587 dal 2000, ma anche queste
diminuiscono: dalle punte di 185-86 nel 2010-2011, oggi, forse a fine anno meno
di 100.
Non c’è pena senza
speranza. E la pena che non offre speranza è controproducente, perché la
speranza è il DNA del cambiamento. Senza c’è paura, espiazione, simulazione,
rassegnazione, adattamento, rinuncia a vivere o ripetitività del sopravvivere.
Sono molto grato a papa
Francesco per avere indicato a tutti noi, al nostro mondo, il perdono e la
misericordia come via per la guarigione dalla globalizzazione
dell’indifferenza, ma anche dalla rassegnazione su noi stessi. E’ un abbraccio
affettuoso a un mondo frammentato e a volte schiacciato dai propri errori, come
la vita di tanti di noi. E’ una strada di guarigione. Anche per noi
personalmente. Anche per la politica. Perché aiuta a riannodare frammenti di
vita e di società contrapposti e lacerati. E’ una chiave per la sicurezza. Per
questo sento la responsabilità che dal Parlamento parta non solo un plauso,
capace di digerire tutto, ma un impegno operativo, per umanizzare la vita nel
carcere e fare dell’esecuzione della pena non la parentesi prima della recidiva
– in Italia al 67 per cento , 2 volte su 3, quasi che il carcere producesse
carcere, ma l’avvio di una guarigione, la restituzione di qualcosa alle
vittime, un percorso di comprensione della colpa e di riabilitazione che è
quello che la “giustizia ristorativa” e non solo distributiva o retributiva sa
fare.
Conosco la forza
dolorosa e alla fine gioiosa della guarigione. L’ho vista nelle famiglie delle
vittime di delitti che hanno portato via la vita ai propri cari, che sono
diventati fratelli, amici, padri e madri dei condannati a morte che negli Stati
Uniti aspettano la loro sentenza capitale. Un percorso di guarigione, come tra
il padre di Timothy Mc Veigh, l’autore principale della strage di Oklahoma
City, Oklahoma bombing e Bud Welch,
che ha perso in quell’attentato terroristico sua figlia, una delle 168 vittime,
ma ci furono più di 60 feriti. Questa guarigione è una delle garanzie che il
male non si ripeta.
Che cosa possiamo fare,
allora?
Va calendarizzata la
Riforma penale, ferma al Senato, anche prima del referendum. Prescrizioni e
intercettazioni non possono essere una materia che deve bloccare tutto il resto,
e, nel caso, si possono stralciare. Ne va della guarigione dell’intero sistema
della giustizia e carcerario. E va approvata con urgenza la delega sulla
riforma dell’Ordinamento penitenziario. E’ un modo concreto di dare corpo al
messaggio centrale lanciato da papa Francesco, anche per un provvedimento di
clemenza. Intelligente e possibile.
Voglio concentrarmi
però su alcune proposte, praticabili, alcune potenzialmente immediate. E’ anche
per questo che ho promosso e è nato qui alla Camera, in risposta a papa
Francesco e alla nostra responsabilità di parlamentari, l’Intergruppo Carcere,
Riabilitazione, umanizzazione, esecuzione della pena. E in parallelo anche al
Senato persone come Manconi, Corsini, Santin hanno dato vita all’Intergruppo
che oggi è qui per rafforzare la scelta di gesti reali e concreti in questa
direzione.
Tra le molte cose da
fare vorrei indicare tre ambiti da fare crescere. Quello del lavoro in carcere.
2639 dipendenti da imprese e cooperative, di cui 652 in semilibertà, 781 con
lavoro esterno e 936 negli istituti sono un dato incoraggiante. Ma è troppo
poco, anche se vanno aggiunti i 12.903 detenuti ammessi al lavoro alle
dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Al netto di tutto, questo vuole
dire 38 mila persone in ozio forzato parziale o totale.
Ma sicuramente c’è
molto da fare subito e bene per quello che riguarda gli immigrati, stranieri,
in carcere e per la salute in carcere (non mi soffermo sul tema specifico della
tossicodipendenza in carcere, per motivi di tempo).
Gli stranieri in
carcere. Uno su tre. Ma ricordo che gli stranieri regolari in Italia hanno un
tasso di delittuosità più basso degli italiani. L’alta percentuale è legata
alla marginalità e alla condizione di irregolarità, non ad altro o a una
maggiore inclinazione al crimine. Sono molti mondi e non uno stereotipo unico.
Culture, lingue, problemi, umanità diverse. E scarsa conoscenza dell’Italiano.
La detenzione, aumentata dall’isolamento e dalla carenza di relazioni
familiari, dal “non capire”, fanno si che nel 2014 si siano contati 4451
episodi di autolesionismo, 547 tentati suicidi e 20 suicidi. Paradossalmente il
carcere per molti di loro può essere il recupero dei diritti umani fondamentali
minimi (cure, alimentazione, scuola, lingua) per persone che non ne hanno mai
goduto appieno nella vita precedente. Il fine pena può non coincidere
necessariamente con l’espulsione e l’esecuzione penale può e deve comprendere
forme di discernimento delle storie personali e dei percorsi. Quanto alle
espulsioni impossibili o inefficaci, per gli “inespellibili” di fatto (apolidi
di fatto, persone che non si ritrovano nei registri dei paesi d’origine o
registri inesistenti perché scomparsi, come in Siria, in Irak) occorre con
concretezza evitare condizioni che favoriscano la recidiva, come il permanere
in un limbo permanente di “non identità”. Occorre creare un attestato
“provvisorio”, abilitante al lavoro, da esibire nei controlli, come primo
passo, in un percorso premiale nel rispetto delle regole, per successive fasi
di regolarizzazione.
Occorre promuovere di
più il diritto a vivere e praticare il proprio sentimento religioso, rendendo
più facili, più frequenti i contatti con associazioni, volontari, comunità religiose,
come forma di comunicazione con l’esterno e anche prevenzione della
radicalizzazione, favorita dall’isolamento e dall’assenza di mediazione
culturale. La pratica religiosa in carcere, per musulmani, cristiani cattolici
e ortodossi, altri credenti è un antidoto anche al reclutamento
fondamentalista. Su un tema così
sensibile, non si vive solo – anche se siamo grati dello straordinario lavoro
che si fa in questo campo – di intelligence e repressione.
C’è un minimo assoluto
della misericordia che non riguarda ancora nessuna delle forme in cui possiamo
e dobbiamo rivedere le modalità di esecuzione della pena. E questo minimo
assoluto è il diritto alle cure e il dovere di prestarle. Oggi incardineremo
dopo 15 anni, per l’approvazione definitiva, in Commissione Affari Sociali i
nuovi LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza. Che riguardano, secondo le leggi
vigenti, anche i detenuti. In maniera identica. Non è così. Le disuguaglianze
che una applicazione imprevista al momento dell’ultima riforma costituzionale
ha permesso e che la riforma costituzionale restaura a favore di una maggiore
uguaglianza, togliendo alle materie concorrenti la salute, è quello che in
molti ambienti si chiama “le 21 sanità” italiane. Questa disuguaglianza, di
diritti e di offerta in carcere, si è moltiplicata.
Le criticità sono
impressionanti. Non sappiamo i bisogni di salute della popolazione carceraria
con flussi omogenei di dati e monitoraggi tempestivi e diventa anche difficile
o impossibile quantificare gli interventi e le risorse necessari per questo
bisogno di salute.
Presso i DAP non c’è la
disponibilità dei dati statistici relativi ai bisogni di salute dei detenuti e
la mappatura che consenta di analizzare e valutare il rapporto tra tali bisogni
e le risorse/servizi apprestati dal Servizio Sanitario; gli Osservatori
regionali non colmano questa lacuna, e non c’è documentazione sufficiente sulle
problematiche relative ai trasferimenti per motivi clinici dei detenuti. Siamo
lontano nei fatti e dal punto di vista culturale nel predisporre e pensare una
erogazione dei servizi di cura all’interno delle carceri in misura paritaria
rispetto alla popolazione esterna, anche se la legge lo prevede. Non c’è un
sistema informatico omogeneo che possa raccogliere i diari clinici dei detenuti
e immaginare interventi mirati, mentre resta scarsa la socializzazione delle
buone prassi e di protocolli operativi efficaci, in particolare per la presa in
carico dei disturbi mentali attraverso la psicoterapia tra D.S.M. e Istituti
penitenziari. La telemedicina diventa una risorsa straordinaria, ma allo stato
attuale scarsamente utilizzata proprio per garantire, in presenza di malattie
croniche, oncologiche, di persone colpite da HIV/AIDS, un livello qualitativo
paritario di cure e di monitoraggio.
Occorre prevedere interventi che
consentano l'espiazione della pena in forme alternative (così come previsto per
i tossicodipendenti e gli ammalati di AIDS e le persone colpite da grave
infermità fisica) in linea con le esigenze di cura e rivedere gli art. 147 e
148 del codice penale che regolano gli interventi urgenti a tutela della
salute, onde consentire una equiparazione degli interventi di cura previsti per
chi è affetto da grave patologia fisica e chi è affetto da grave patologia
psichiatrica.
È il minimo che
chiediamo all’Amministrazione carceraria da questo Parlamento, mentre noi
lavoreremo per orientare i LEA anche in questa direzione e per rendere
quantificabile e fruibile la telemedicina come risorsa e canale sostenibile e
di qualità.
Ma vengo alle ultime
due proposte, in conclusione. Come sapete, ho presentato in questa legislatura,
tra gli altri, due ddl, uno per l’abolizione dell’ergastolo e dell’ergastolo
ostativo e uno per l’amnistia e l’indulto. Non sono certo che vi sia, in questo
Parlamento, la possibilità di un ampio consenso vero un provvedimento di
amnistia e indulto. Il Senato dovrebbe approvare l’abbassamento del quorum
necessario all’approvazione, che per mutate e forse strutturali mutamenti del
dibattito politico con difficoltà potrebbe raggiungere la soglia del 75 per
cento. O, a norme immutate, come ho proposto, lo stesso consenso eccezionale
che si è creato attorno al ricordo dell’azione politica originale di Marco
Pannella - di cui non ho condiviso alcune battaglie fondamentali, ma altre ci
hanno visto assieme, contro la pena di morte e per l’umanizzazione della
condizione carceraria – potrebbe trasformarsi in una “tregua parlamentare” per
approvare un provvedimento di amnistia e indulto con ampie possibilità di
diventare un volano di trasformazione strutturale verso un sistema di giustizia
più efficace e, finalmente riorientato alla giustizia riparativa.
Proprio perché il
sistema carcerario sta riacquistando una sua fisiologia, un provvedimento di
amnistia e indulto avrebbe oggi la possibilità di anticipare il tempo del
recupero sociale, per reati non di allarme sociale, non solo decomprimendo il
sistema carcerario, ma liberando la possibilità, davvero, di liberare risorse
verso una più rapida ed efficace, accompagnata, inclusione sociale.
È una possibilità
concreta, che non intacca il principio della certezza della pena, ma
anticiperebbe, attraverso una forma di inclusione sociale anticipata, una nuova
e diversa forma di esecuzione della pena, anche con un coinvolgimento in lavori
di utilità sociale.
Ma è sull’ergastolo
ostativo e sull’ergastolo che credo si giochi davvero il centro del tema di
oggi, Pena e Speranza.
È necessario prevedere
anche per reati gravissimi la possibilità di essere ripresi in considerazione.
È la speranza, che ha un grande valore anche in un patto educativo tra società
e detenuti, e è un elemento per aumentare la sicurezza, non per ridurla. Non
significa rivedere sentenze andate in giudicato. Non intacca la certezza della
pena che è un principio cardine. Rivedere non la pena, ma le modalità di
esecuzione della pena, anche per l’ergastolo ostativo, il “fine pena mai”. Non
in maniera automatica, ma attraverso una rivalutazione personale dopo un tempo
adeguato dalla condanna.
Perché chi si è
macchiato di reati gravissimi, mafia, criminalità organizzata, che non abbia
collaborato con la giustizia riceve ergastoli che non finiscono mai e possono
durare anche 70 anni, sempre? Perché restano esclusi dai benefici penitenziali.
Ma perdono anche l’accesso alla libertà condizionale. I primi sono legati a una
logica di premialità, i benefici. La libertà condizionale attiene alla
necessaria riconsiderazione del percorso compiuto dalla persona.
Infatti, mentre i
benefici sono nella legge penitenziaria (così come rivisitata dalla cosiddetta
legge Gozzini) la liberazione condizionale è nel codice penale.
E’ prevista in tutti gli ordinamenti dei diversi stati perché contiene la
scelta fondamentale di non volere inchiodare la persona solo al momento del
reato, senza valutarne il cammino successivo. E’ prevista per l’ergastolo dopo
26 anni di pena scontata. Per le altre pene, la parte residua di pena non deve
essere superiore a cinque anni. Ha uno statuto diverso dai benefici perché è
essa stessa intrinsecamente parte del concetto di pena detentiva.
Invece, lo ripeto, il
concetto di ostatività non solo pone un blocco ai benefici, ma anche
alla liberazione condizionale. Qui la speranza viene annullata. La libertà
condizionale non è necessario che sia automatica. Potrà, se del caso, essere negata, dopo un riesame, su valide
motivazioni. Ma oggi l’ostatività vieta
anche la possibilità di considerare tale riesame, e nega in radice la speranza.
Può essere già applicato a quanti siano stati derubricati dal reato iniziale
perché il tempo trascorso ha reciso ogni rapporto possibile con l’ambiente
criminale che ha originato il reato, e che potrebbero entrare all’interno di in
sistema carcerario meno duro, ma oggi ne sono esclusi, proprio sulla base di
una confusione tra benefici e libertà condizionale. Chiedo e chiediamo oggi
questa possibilità, perché scompaia una ostatività ermetica che nega
possibilità al cambiamento. Perché torni la speranza assieme a un’alta cultura
giuridica e carceraria.