Mario Marazziti - Pagina Ufficiale

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mercoledì 16 novembre 2016

Pena e speranza: carceri, riabilitazione, esecuzione della pena, riforme possibili


Quando l’Italia fu condannata dalla Corte europea con la sentenza Torreggiani i detenuti erano 65.905 mentre i posti erano 46 mila. Oggi sono 54.912 e i posti sono diventati 50.062.  Il tasso di sovraffollamento, grazie al lavoro del Governo e del Parlamento, è sceso dal 146% al 109%, meglio della Francia, 119 e della gran Bretagna. Le misure alternative sono raddoppiate, in tre anni, da 21 mila a 40 mila. E’ un indice positivo, vuole dire che si può costruire sicurezza senza ricorrere al carcere. 

Rimane, sintetica, icastica, la ferita dei suicidi accertati in carcere per porci con serietà la domanda di oggi: Pena e Speranza”. 920 persone che si sono tolte la vita, 920 suicidi dal 2000, quando ce ne furono 61, alla punta terribile del 2009, 72, per poi scendere a 66, 60 nel 2012 e a 49, 44, 43 da quando questo Parlamento e il Ministero della Giustizia  hanno messo mano al sistema carcerario in maniera significativa, e, speriamo che non si aggiungano altri ai 33 che si erano tolti la vita fino a un mese fa. In realtà le morti che avvengono in carcere – e il problema della salute in carcere mi chiederà qualche parola più precisa, fra poco – sono molte di più. Tra di esse, inutile nascondercelo, c’è cattiva salute, sanità disuguale, violenza e overdose di droghe. 2587 dal 2000, ma anche queste diminuiscono: dalle punte di 185-86 nel 2010-2011, oggi, forse a fine anno meno di 100.

Non c’è pena senza speranza. E la pena che non offre speranza è controproducente, perché la speranza è il DNA del cambiamento. Senza c’è paura, espiazione, simulazione, rassegnazione, adattamento, rinuncia a vivere o ripetitività del sopravvivere.
Sono molto grato a papa Francesco per avere indicato a tutti noi, al nostro mondo, il perdono e la misericordia come via per la guarigione dalla globalizzazione dell’indifferenza, ma anche dalla rassegnazione su noi stessi. E’ un abbraccio affettuoso a un mondo frammentato e a volte schiacciato dai propri errori, come la vita di tanti di noi. E’ una strada di guarigione. Anche per noi personalmente. Anche per la politica. Perché aiuta a riannodare frammenti di vita e di società contrapposti e lacerati. E’ una chiave per la sicurezza. Per questo sento la responsabilità che dal Parlamento parta non solo un plauso, capace di digerire tutto, ma un impegno operativo, per umanizzare la vita nel carcere e fare dell’esecuzione della pena non la parentesi prima della recidiva – in Italia al 67 per cento , 2 volte su 3, quasi che il carcere producesse carcere, ma l’avvio di una guarigione, la restituzione di qualcosa alle vittime, un percorso di comprensione della colpa e di riabilitazione che è quello che la “giustizia ristorativa” e non solo distributiva o retributiva sa fare.

Conosco la forza dolorosa e alla fine gioiosa della guarigione. L’ho vista nelle famiglie delle vittime di delitti che hanno portato via la vita ai propri cari, che sono diventati fratelli, amici, padri e madri dei condannati a morte che negli Stati Uniti aspettano la loro sentenza capitale. Un percorso di guarigione, come tra il padre di Timothy Mc Veigh, l’autore principale della strage di Oklahoma City, Oklahoma bombing e Bud Welch, che ha perso in quell’attentato terroristico sua figlia, una delle 168 vittime, ma ci furono più di 60 feriti. Questa guarigione è una delle garanzie che il male non si ripeta.

Che cosa possiamo fare, allora?

Va calendarizzata la Riforma penale, ferma al Senato, anche prima del referendum. Prescrizioni e intercettazioni non possono essere una materia che deve bloccare tutto il resto, e, nel caso, si possono stralciare. Ne va della guarigione dell’intero sistema della giustizia e carcerario. E va approvata con urgenza la delega sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario. E’ un modo concreto di dare corpo al messaggio centrale lanciato da papa Francesco, anche per un provvedimento di clemenza. Intelligente e possibile.

Voglio concentrarmi però su alcune proposte, praticabili, alcune potenzialmente immediate. E’ anche per questo che ho promosso e è nato qui alla Camera, in risposta a papa Francesco e alla nostra responsabilità di parlamentari, l’Intergruppo Carcere, Riabilitazione, umanizzazione, esecuzione della pena. E in parallelo anche al Senato persone come Manconi, Corsini, Santin hanno dato vita all’Intergruppo che oggi è qui per rafforzare la scelta di gesti reali e concreti in questa direzione.

Tra le molte cose da fare vorrei indicare tre ambiti da fare crescere. Quello del lavoro in carcere. 2639 dipendenti da imprese e cooperative, di cui 652 in semilibertà, 781 con lavoro esterno e 936 negli istituti sono un dato incoraggiante. Ma è troppo poco, anche se vanno aggiunti i 12.903 detenuti ammessi al lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Al netto di tutto, questo vuole dire 38 mila persone in ozio forzato parziale o totale.

Ma sicuramente c’è molto da fare subito e bene per quello che riguarda gli immigrati, stranieri, in carcere e per la salute in carcere (non mi soffermo sul tema specifico della tossicodipendenza in carcere, per motivi di tempo).

Gli stranieri in carcere. Uno su tre. Ma ricordo che gli stranieri regolari in Italia hanno un tasso di delittuosità più basso degli italiani. L’alta percentuale è legata alla marginalità e alla condizione di irregolarità, non ad altro o a una maggiore inclinazione al crimine. Sono molti mondi e non uno stereotipo unico. Culture, lingue, problemi, umanità diverse. E scarsa conoscenza dell’Italiano. La detenzione, aumentata dall’isolamento e dalla carenza di relazioni familiari, dal “non capire”, fanno si che nel 2014 si siano contati 4451 episodi di autolesionismo, 547 tentati suicidi e 20 suicidi. Paradossalmente il carcere per molti di loro può essere il recupero dei diritti umani fondamentali minimi (cure, alimentazione, scuola, lingua) per persone che non ne hanno mai goduto appieno nella vita precedente. Il fine pena può non coincidere necessariamente con l’espulsione e l’esecuzione penale può e deve comprendere forme di discernimento delle storie personali e dei percorsi. Quanto alle espulsioni impossibili o inefficaci, per gli “inespellibili” di fatto (apolidi di fatto, persone che non si ritrovano nei registri dei paesi d’origine o registri inesistenti perché scomparsi, come in Siria, in Irak) occorre con concretezza evitare condizioni che favoriscano la recidiva, come il permanere in un limbo permanente di “non identità”. Occorre creare un attestato “provvisorio”, abilitante al lavoro, da esibire nei controlli, come primo passo, in un percorso premiale nel rispetto delle regole, per successive fasi di regolarizzazione.

Occorre promuovere di più il diritto a vivere e praticare il proprio sentimento religioso, rendendo più facili, più frequenti i contatti con associazioni, volontari, comunità religiose, come forma di comunicazione con l’esterno e anche prevenzione della radicalizzazione, favorita dall’isolamento e dall’assenza di mediazione culturale. La pratica religiosa in carcere, per musulmani, cristiani cattolici e ortodossi, altri credenti è un antidoto anche al reclutamento fondamentalista. Su un  tema così sensibile, non si vive solo – anche se siamo grati dello straordinario lavoro che si fa in questo campo – di intelligence e repressione.

C’è un minimo assoluto della misericordia che non riguarda ancora nessuna delle forme in cui possiamo e dobbiamo rivedere le modalità di esecuzione della pena. E questo minimo assoluto è il diritto alle cure e il dovere di prestarle. Oggi incardineremo dopo 15 anni, per l’approvazione definitiva, in Commissione Affari Sociali i nuovi LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza. Che riguardano, secondo le leggi vigenti, anche i detenuti. In maniera identica. Non è così. Le disuguaglianze che una applicazione imprevista al momento dell’ultima riforma costituzionale ha permesso e che la riforma costituzionale restaura a favore di una maggiore uguaglianza, togliendo alle materie concorrenti la salute, è quello che in molti ambienti si chiama “le 21 sanità” italiane. Questa disuguaglianza, di diritti e di offerta in carcere, si è moltiplicata.

Le criticità sono impressionanti. Non sappiamo i bisogni di salute della popolazione carceraria con flussi omogenei di dati e monitoraggi tempestivi e diventa anche difficile o impossibile quantificare gli interventi e le risorse necessari per questo bisogno di salute.

Presso i DAP non c’è la disponibilità dei dati statistici relativi ai bisogni di salute dei detenuti e la mappatura che consenta di analizzare e valutare il rapporto tra tali bisogni e le risorse/servizi apprestati dal Servizio Sanitario; gli Osservatori regionali non colmano questa lacuna, e non c’è documentazione sufficiente sulle problematiche relative ai trasferimenti per motivi clinici dei detenuti. Siamo lontano nei fatti e dal punto di vista culturale nel predisporre e pensare una erogazione dei servizi di cura all’interno delle carceri in misura paritaria rispetto alla popolazione esterna, anche se la legge lo prevede. Non c’è un sistema informatico omogeneo che possa raccogliere i diari clinici dei detenuti e immaginare interventi mirati, mentre resta scarsa la socializzazione delle buone prassi e di protocolli operativi efficaci, in particolare per la presa in carico dei disturbi mentali attraverso la psicoterapia tra D.S.M. e Istituti penitenziari. La telemedicina diventa una risorsa straordinaria, ma allo stato attuale scarsamente utilizzata proprio per garantire, in presenza di malattie croniche, oncologiche, di persone colpite da HIV/AIDS, un livello qualitativo paritario di cure e di monitoraggio.

Occorre prevedere interventi che consentano l'espiazione della pena in forme alternative (così come previsto per i tossicodipendenti e gli ammalati di AIDS e le persone colpite da grave infermità fisica) in linea con le esigenze di cura e rivedere gli art. 147 e 148 del codice penale che regolano gli interventi urgenti a tutela della salute, onde consentire una equiparazione degli interventi di cura previsti per chi è affetto da grave patologia fisica e chi è affetto da grave patologia psichiatrica.

È il minimo che chiediamo all’Amministrazione carceraria da questo Parlamento, mentre noi lavoreremo per orientare i LEA anche in questa direzione e per rendere quantificabile e fruibile la telemedicina come risorsa e canale sostenibile e di qualità.

Ma vengo alle ultime due proposte, in conclusione. Come sapete, ho presentato in questa legislatura, tra gli altri, due ddl, uno per l’abolizione dell’ergastolo e dell’ergastolo ostativo e uno per l’amnistia e l’indulto. Non sono certo che vi sia, in questo Parlamento, la possibilità di un ampio consenso vero un provvedimento di amnistia e indulto. Il Senato dovrebbe approvare l’abbassamento del quorum necessario all’approvazione, che per mutate e forse strutturali mutamenti del dibattito politico con difficoltà potrebbe raggiungere la soglia del 75 per cento. O, a norme immutate, come ho proposto, lo stesso consenso eccezionale che si è creato attorno al ricordo dell’azione politica originale di Marco Pannella - di cui non ho condiviso alcune battaglie fondamentali, ma altre ci hanno visto assieme, contro la pena di morte e per l’umanizzazione della condizione carceraria – potrebbe trasformarsi in una “tregua parlamentare” per approvare un provvedimento di amnistia e indulto con ampie possibilità di diventare un volano di trasformazione strutturale verso un sistema di giustizia più efficace e, finalmente riorientato alla giustizia riparativa.

Proprio perché il sistema carcerario sta riacquistando una sua fisiologia, un provvedimento di amnistia e indulto avrebbe oggi la possibilità di anticipare il tempo del recupero sociale, per reati non di allarme sociale, non solo decomprimendo il sistema carcerario, ma liberando la possibilità, davvero, di liberare risorse verso una più rapida ed efficace, accompagnata, inclusione sociale.

È una possibilità concreta, che non intacca il principio della certezza della pena, ma anticiperebbe, attraverso una forma di inclusione sociale anticipata, una nuova e diversa forma di esecuzione della pena, anche con un coinvolgimento in lavori di utilità sociale.

Ma è sull’ergastolo ostativo e sull’ergastolo che credo si giochi davvero il centro del tema di oggi, Pena e Speranza.

È necessario prevedere anche per reati gravissimi la possibilità di essere ripresi in considerazione. È la speranza, che ha un grande valore anche in un patto educativo tra società e detenuti, e è un elemento per aumentare la sicurezza, non per ridurla. Non significa rivedere sentenze andate in giudicato. Non intacca la certezza della pena che è un principio cardine. Rivedere non la pena, ma le modalità di esecuzione della pena, anche per l’ergastolo ostativo, il “fine pena mai”. Non in maniera automatica, ma attraverso una rivalutazione personale dopo un tempo adeguato dalla condanna.

Perché chi si è macchiato di reati gravissimi, mafia, criminalità organizzata, che non abbia collaborato con la giustizia riceve ergastoli che non finiscono mai e possono durare anche 70 anni, sempre? Perché restano esclusi dai benefici penitenziali. Ma perdono anche l’accesso alla libertà condizionale. I primi sono legati a una logica di premialità, i benefici. La libertà condizionale attiene alla necessaria riconsiderazione del percorso compiuto dalla persona.

Infatti, mentre i benefici sono nella legge penitenziaria (così come rivisitata dalla cosiddetta legge Gozzini) la liberazione condizionale è nel codice penale. E’ prevista in tutti gli ordinamenti dei diversi stati perché contiene la scelta fondamentale di non volere inchiodare la persona solo al momento del reato, senza valutarne il cammino successivo. E’ prevista per l’ergastolo dopo 26 anni di pena scontata. Per le altre pene, la parte residua di pena non deve essere superiore a cinque anni. Ha uno statuto diverso dai benefici perché è essa stessa intrinsecamente parte del concetto di pena detentiva.

Invece, lo ripeto, il concetto di ostatività non solo pone un blocco ai benefici, ma anche alla liberazione condizionale. Qui la speranza viene annullata. La libertà condizionale non è necessario che sia automatica. Potrà, se del caso,  essere negata, dopo un riesame, su valide motivazioni. Ma oggi  l’ostatività vieta anche la possibilità di considerare tale riesame, e nega in radice la speranza. Può essere già applicato a quanti siano stati derubricati dal reato iniziale perché il tempo trascorso ha reciso ogni rapporto possibile con l’ambiente criminale che ha originato il reato, e che potrebbero entrare all’interno di in sistema carcerario meno duro, ma oggi ne sono esclusi, proprio sulla base di una confusione tra benefici e libertà condizionale. Chiedo e chiediamo oggi questa possibilità, perché scompaia una ostatività ermetica che nega possibilità al cambiamento. Perché torni la speranza assieme a un’alta cultura giuridica e carceraria.