C’è un territorio, il più frequentato, che in tanti si vorrebbe non ci fosse, ed è quello proprio della morte e del morire. Ci voleva e ci vuole un uomo colto, fine, coraggioso come Vincenzo Paglia per non rimuovere un tema così importante, per entraci dentro e per accompagnarci in una zona di sentimenti misti, pensieri contraddittori, soluzioni difficili. Per questo, per prima cosa vorrei ringraziarlo di questo libro, del suo lavoro di ricerca, dell’equilibrio, un equilibrio mai equidistante, che può essere una bussola in un tempo complesso come il nostro.
E’ un libro che aiuta a capire quello che
conta e quello che conta di meno nella vita. Che trasuda e trasmette
comprensione e simpatia per la vita anche debole, e, nel farlo, ci accompagna
dentro una debolezza ineliminabile, non giudica ma comprende la paura che ci
accompagna di fronte al dolore, al
morire. E’un libro che non giudica, ma che aiuta un giudizio. Senza
pregiudizi. Senza chiudere gli occhi, ma aiutando ad aprirli. Senza
semplificazioni. E’un libro che si legge con una certa avidità, anche perché
aiuta a fare nostra una letteratura ampia, fatti, esperienze, che solo un uomo
che frequenta questi studi da molti decenni – il primo studio storico
importante di Vincenzo Paglia che non è solo un grande pastore, ma capace di
vivere sulla frontiera dell’umano con il cuore della misericordia e una
capacità di ascolto evangelico non comuni, che si è raffinato assieme alla
Comunità di Sant’Egidio per diventare un patrimonio di tutti, è una storia
della pietà confortata, proprio sul morire e sulla pietà - . E’un libro che
consiglio. Anche perché fa proprie molte delle nostre domande.
E’una bussola nell’umano, nel come stare vicini, nel come combattere il dolore e
il male, la solitudine, per aiutare ognuno di noi a rimanere umani. E le nostre
società.
Domande
che sono dentro ognuno di noi. Come dice l’autore “La morte è diventata un
tabù. Non solo ormai è normale morire in solitudine ma non si può neppure più
parlare della morte”. Nel tempo, lo stesso linguaggio è cambiato. E’il modo in
cui l’inconcepibile si è fatto strada nella nostra vita quotidiana e è
diventato più normale. Eutanasia, buona morte. Ma anche morte “dolce”. Ma anche
richiesta, in condizioni particolari, di ricevere la morte, di suicidio
assistito. Quello che fino a pochi decenni fa appariva inaccettabile a gran
parte del mondo occidentale, e si associava ai programmi di eugenetica di
regimi folli e totalitari come quello nazista (anche se programmi di eugenetica
in altra forma non sono stati estranei alla socialdemocrazia svedese) oggi ha
un altro sapore. E comincia dal linguaggio. Oggi, da più parti, c’è una
richiesta insistente per una morte buona e questa arriva ai legislatori.
Tornerò su questo.
Ci
sono grandi studi storici sulla morte in Occidente, come quello di Philippe
Ariès (Storia della morte in Occidente, 1975). Che aiuta a vedere l’evoluzione
del nostro rapporto con la morte e il morire. Dalla morte come compagnia
quotidiana, ma in un mondo ampiamente indifferente ai corpi, con fosse comuni,
ossari anonimi e bene ordinati o corpi consegnati alla Chiesa per la sepoltura:
la morte 'addomesticata', quella dell’età antica, fatto familiare, sociale.
Alla prima svolta umanistica, nel XII-XII secolo, verso la privatizzazione
della morte. Quando il volto del defunto viene coperto nei riti funebri davanti
all’altare, alla svolta rinascimentale e barocca, della morte “affascinante,
teatrale, attraente, fino alla svolta romantica, quando la morte individuale
appare nella sua forza, con la paura della morte e la paura della morte
apparente, la scienza che fissa le modalità per evitarlo, e l’attuale rimozione
e isolamento della morte e del morire in spazi appositi, medicalizzati,
ospedalizzati.
Il cancro, la malattia incurabile, è diventato spesso
nella nostra rappresentazione, la
paurosa immagine della morte, il corpo
che deperisce, e ha sostituito nell’immaginario le più antiche immagini
medievali, barocche, dello scheletro o del corpo che si sfigura e dissolve in
terra. Il cancro, in quanto rappresentante della morte, riceve, allora, il suo
stesso trattamento da parte dello sguardo e del discorso ordinario della
società contemporanea: come un esilio, e l’obbligo di dissimularsi.
Il malato terminale ed il morente sono
spesso spinti, così, a vivere e a morire nella
clandestinità ospedaliera e in una
“conveniente” discrezione, quasi per non intossicare la vita dei
vivi,
finché si può. Sono passati 50 anni dalla pubblicazione per Flammarion, la
Biblioteca scientifica, del saggio di Vladimir Jankélévitch La mort.
Era una riflessione avviatasi in Occidente in maniera nuova, dopo la seconda
Guerra Mondiale, dopo la Shoah, una quantità di morte sul nostro continente,
che ha portato alla nascita delle nostre democrazie contemporanee, di un
rifiuto della guerra di aggressione, e, progressivamente, alla scomparsa della
pena di morte dal suolo europeo e dalle nostre leggi. Per Jankélévitch sulla
morte non c’è niente da sapere, perché non si può sapere nulla, perché
qualunque sapere è sempre “al di qua”, e per questo rimane “impensabile” e il
silenzio “scioccante”. Noi, con il libro di Vincenzo Paglia ci muoviamo in
questo territorio sottile,: “Non si deve dimenticare lo scarto e lo scandalo
che, comunque, la vita e la morte gettano nel pensare e nel convivere umano.
Potremmo dire che tutti, nessuno escluso, ci troviamo davant al mistero – sono
le parole che concludono questo libro. Ed è proprio lo spazio del mistero che
dobbiamo salvaguardare”. Questo spazio è diverso dalla tentazione di rimozione
del nostro mondo contemporaneo.
Geoffrey
Gorer ha parlato, con qualche ragione. Di “pornografia della morte” nel mondo
contemporaneo. Per descrivere come il tabù della morte abbia preso
progressivamente il posto, nel XX e nel XXI secolo, del tabù sul sesso e la
sessualità. E la morte come tabù, come la rimozione e il tentativo
contemporaneo di governare e dominare il morire e la morte isolandoli in un momento
e in una decisione da prendere svelano in realtà un grande problema della
modernità e del nostro mondo contemporaneo.
L’aveva
percepito Michel Foucault, ne Le parole e
le cose. “Ai nostri giorni – scriveva, parlando di Nietzsche e della morte
di Dio, provocata – si afferma non tanto l’assenza o la morte di dio, quanto la
fine dell’uomo (quel sottile, impercettibile scarto, quell’arretramento nella
forma dell’identità, che hanno portato la finitudine dell’uomo a convertirsi
nella sua fine); e si scopre a questo punto che la morte di Dio e l’ultimo uomo
sono strettamente legati: non è appunto l’ultimo uomo che annuncia di avere
ucciso Dio, ponendo in tal modo il proprio linguaggio, il proprio pensiero, il
proprio riso nello spazio del dio già morto, ma proponendosi anche come colui
che ha ucciso Dio e la cui esistenza include la libertà e la decisione di tale
delitto? Così, l’ultimo uomo è a un tempo, più vecchio e più giovane della
morte di Dio: avendo ucciso Dio, è lui stesso che deve rispondere alla propria
finitudine; ma dal momento che parla, pensa ed esiste entro la morte di Dio, il
suo crimine stesso è destinato a morire; nuovi dei, identici, già gonfiano
l’Oceano futuro; l’uomo scomparirà. Più che la morte di Dio – o meglio, nella
scia di tale morte e in una profonda correlazione con essa – il pensiero di
Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore: ossia l’esplosione del volto
dell’uomo nel riso, e il ritorno delle maschere.”
Mi
sembra che il rapporto con la morte e il morire contemporanei siano molto
legati al tema dell’onnipotenza, la morte di Dio: e l’uomo che rimane solo a dover rispondere
della sua finitudine. Sono la solitudine dell’uomo e della donna contemporanei.
Anche dal punto di vista dell’organizzazione sociale. Ma mi ha colpito in
passato e oggi, leggendolo nel contesto di una riflessione su “sorella morte”
nel nostro tempo, anche il riferimento conclusivo alle maschere, che faceva Foucault.
Uno studio che raccoglie 14 ricerche americane sull’atteggiamento contemporaneo
della società americana davanti alla morte osserva che “quello a cui si rende
visita non è un vero morto, che presenta i segni della morte, ma un quasi-vivo,
truccato e disposto in modo da offrire ancora l’illusione della vita”. La
società americana ha prodotto un armamentario complesso, psicologico e
sentimentale, rituale per provare a essere meno colpiti psicologicamente e
sentimentalmente e proteggersi dalle quotidiane tragedie della morte con il
minimo di emozioni. Il nostro è un mondo in cui si aiuta il più possibile la
vita a essere lunga, ma dove non si sa come accompagnare il tempo del morire.
Questo
è un libro sulla dignità, sulla dignità del vivere, e anche del morire. Perché
mette al centro gli uomini e le donne veri, del nostro tempo, la vita fragile,
ma anche la modernità, i cambiamenti intervenuti, la grande conquista degli
anni in più da vivere, i diritti, i doveri di fronte alla vita. E non ha paura
di dire che anche il tempo del morire è parte della nostra vita e, a volte, non
di rado, dà ancora più significato alla vita. Vorrei ringraziare l’Autore
perché fa, per tutti noi, il viaggio di avvicinarsi alla bellezza della vita ma
anche al dolore, e non c’è solo l’atto o l’attimo del morire. Ma c’è un prima,
la vita che si è vissuta, gli affetti, le esperienze, la cultura e la mentalità
che si è formata, quella di un credente, di un non credente, di un credente in
altro modo, magari anche quella di un credulone in filosofie di vita altre,
internettiane, e un prima prossimo, il dolore che può accompagnarsi a una
malattia, il cambiamento del corpo ma non del sé. E il dolore di chi sta
accanto, se sta accanto, e di chi resta, dopo. Un libro che tocca davvero un
tabù, che è quello del dolore, E lo prende sul serio, non fugge, lo combatte ma
non lo cancella, come è davvero nella vita. Come Giacobbe che combatte con Dio
e il dolore a volte si impossessa di tutto il corpo e la mente o vorrebbe: ma
abbiamo una medicina palliativa e del dolore che ne spuntano le armi. L’autore
sa il legame tra la voglia di farla finita e il dolore che crea la
disperazione, come pure quella disperazione o triste condizione di chi pensa
che non ci sia più vita perché c’è un’altra compagnia disperante, quella della
solitudine del morente, e della solitudine nella vita.
L’autore
indica la via che lui chiama: “Né rinuncia, né abbandono, né accanimento”, e sa
che occorre combattere contro solitudine e dolore, causa di disperazione e di
perdita della dignità di ognuno di noi. Non arriva a soluzioni semplificate.
Poggia sulla grande esperienza, quaranta anni e più, della Comunità di
Sant’Egidio nell’accompagnamento delle persone anziane, che ha attraversato la
trasformazione del nostro mondo contemporaneo, l’invecchiamento della società
italiana ed europee, ben conosce gli inferni contemporanei di certi istituti
per anziani, dove si può essere lasciati soli su un materasso senza fodera, di
gommapiuma, d’estate, con biscotti sbriciolati senza pigiama, che bruciano la
pelle. Come quelli che ho visto e visitato, e di persone dichiarate dementi senili,
che semplicemente urlavano l’ingiustizia di quell’abbandono, lucide, razionali,
disperate, bisognose solo di uno che pulisse il letto, desse un bicchiere
d’acqua, una carezza, rispondesse al lamento. Ricordo quando fui denunciato per
avere raccontato questo, con la Comunità di Sant’Egidio, dalla più grande casa
per lungodegenti del Lazio, per poi essere assolto in Appello. Scrivevo: “Dai
lager c’è chi, pochi, è uscito e racconta. Qui no”.
L’autore
conosce questi inferni, non fornisce una visione consolatoria, edulcorata. Per
questo ci aiuta, tutti, a entrare in questa zona difficile della vita che il
nostro mondo non vorrebbe considerare. Da cristiano, biblista, uomo del
Vangelo, così vicino alla misericordia che ci viene regalata, a credenti e non
credenti, da papa Francesco, mette al centro Gesù, la sua agonia, la sua morte,
il mistero della risurrezione e la speranza che nulla di quello che si è
vissuto venga perduto, come nel corpo risorto di Gesù che mostra tutti i segni
della crocifissione.
Allora,
in un tempo di grande individualismo, nel mondo occidentale, quando
l’individualismo, nel proliferare delle credenze e nel pluralismo delle
religioni, sembra diventato una religione unica, l’unica globalizzata, almeno
nell’Occidente, questo libro aiuta a contrastare l’isolamento del morente,
indica vie per rispondere alle grandi domande della vita cui da soli si rischia
di non sapere rispondere davvero nella vita: che cosa è il male, perché la
malattia e la morte, chi manda il male, che senso può avere, se ce l’ha, la
sofferenza.
In
un mondo in cui è esaltata la libertà di scelta, sulla vita e sulla morte.
L’autore non lo dice, perché pieno di rispetto anche per coloro dei quali non condivide la visione e la richiesta di una eutanasia attiva, legale, fino al suicidio assistito. Ma è implicito il fatto che la vita non è mai solo un bene individuale, ma sempre relazionale. E che anche chi a volte chiede con forza il diritto di autodeterminazione, anche indipendentemente dalle cure disponibili, pure esprimendo volontà autentica potrebbe non essere davvero “libero” perché sotto la spinta del dolore, della paura, dei modelli culturali, sociali, di una idea di sé e della integrità della vita molto fisica, o giovanilistica, sotto la spinta della solitudine o dell’abbandono, in una libertà molto condizionata.
L’autore non lo dice, perché pieno di rispetto anche per coloro dei quali non condivide la visione e la richiesta di una eutanasia attiva, legale, fino al suicidio assistito. Ma è implicito il fatto che la vita non è mai solo un bene individuale, ma sempre relazionale. E che anche chi a volte chiede con forza il diritto di autodeterminazione, anche indipendentemente dalle cure disponibili, pure esprimendo volontà autentica potrebbe non essere davvero “libero” perché sotto la spinta del dolore, della paura, dei modelli culturali, sociali, di una idea di sé e della integrità della vita molto fisica, o giovanilistica, sotto la spinta della solitudine o dell’abbandono, in una libertà molto condizionata.
Libertà
di scegliere, sì, sembra dire l’autore. Ma essere soli non aiuta la libertà,
come si sarebbe detto una volta, occorre “il libero arbitrio – senza
costrizioni interne ed esterne – e la piena avvertenza. Altra materia
difficile.
Il
Parlamento è impegnato per cercare di creare norme lievi, un 'diritto lieve',
che aiuti a umanizzare le fasi terminali della vita e a creare percorsi meno
controversi. Nelle scorse legislature questi temi hanno spaccato il paese, con
una spinta a legiferare sulla base di dolorosi casi estremi, completamente
diversi, quelli di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby. Non si fa mai una
buona legge sulla spinta di situazioni estreme. Abbiamo cercato di affrontare
questi temi e la Commissione Affari Sociali, dopo avere avviato un lavoro,m
anche di studio preliminare e di ascolto,
assieme alla Commissione Giustizia su proposte di legge vertenti
sull’eutanasia attiva e sul suicidio assistito,
ha dato grande impulso al lavoro di esame di ben 15 proposte che vertono
su quelle che vengono chiamate Dichiarazioni o Disposizioni Anticipate di
Trattamento.
DAT.
Occorre togliere temi così sensibili alle tifoserie, e anche a informazioni
stampa non precise, magari nella speranza di fare crescere una opinione
pubblica favorevole o contraria. Stiamo lavorando con continuità a un testo-base
che tenga conto dei 15 disegni di legge presentati sulle DAT, e in quindici
giorni dovremmo arrivare al testo per la parte emendativa. Dal 4 febbraio 2016
abbiamo ascoltato circa 30 soggetti istituzionali, associazioni di famiglie e
di pazienti, società mediche e scientifiche, farmaceutiche, esperti di livello
nazionale e internazionale, in 7 giornate dedicate. Da tempo si riunisce il
Comitato Ristretto. Come ho detto, non siamo lontani da un testo-base condiviso
nella struttura, anche se su questioni sensibili esistono naturalmente
posizioni e visioni diverse. Ma stiamo cercando di superare posizioni manichee
su un tema così delicato.
Occorre
tenere insieme aspetti che sembrano a volte non stare insieme. Ma ci hanno
aiutato le molte audizioni svolte, che ci aiutano anche nel linguaggio.
Disposizioni o Dichiarazioni di trattamento? Immodificabili e vincolanti, ma da
quando, in che circostanze? Interpretabili da un fiduciario indicato tra i
familiari o anche al di fuori, assieme al personale medico, nel caso di
impossibilità di espressione da parte della persona in difficoltà? Né
abbandono, né accanimento terapeutico, né rinuncia ad aiutare e al sostegno.
Rispetto della volontà della persona, della Costituzione, a rifiutare cure
invasive. Ma anche necessità di cure
appropriate e proporzionate, di un consenso davvero informato che richiede il
tempo della spiegazione e del consenso e la possibilità di aggiornamento costante,
nel tempo, anche sulle possibilità di cura e di sollievo dal dolore, palliative,
o domiciliari, valorizzazione, al tempo stesso, del ruolo del medico in una
alleanza terapeutica reale e non burocratica, verso una pianificazione
condivisa delle cure, come elemento dinamico, verso una società più capace di
ascoltare e non lasciare soli, non isolare, chi sta male, i suoi familiari e
amici, i sanitari che svolgono la loro funzione e missione di cura.
Per questo mi ha colpito recentemente, di
fronte alle notizie circolate sul giovane belga per cui i genitori hanno
chiesto l’eutanasia attiva, l’accelerazione mediatica che ha portato al
sondaggio tra militanti 5Stelle, 2000, e che è stato tradotto in una
percentuale quasi totalitaria a favore sia dell’eutanasia attiva che delle
Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Molti giornali hanno amplificato o
riportato l’autodefinita capacità “rivoluzionaria” di questa forma di
democrazia diretta (dove lo 0, 000033 degli italiani si sarebbe espresso e che
dovrebbe vincolare in tal modo il lavoro di un quinto del Parlamento e la
principale forza di opposizione). Con la modestia che mi viene da audizioni
complesse anche sul tema della terminologia mi sono chiesto su che cosa possano
avere cliccato quelle duemila persone. E penso che sia davvero “rivoluzionaria”,
se deve essere “rivoluzionaria”, una democrazia che cerca di costruire una
legge saggia, studiata, capace di considerare tutte le anime del paese, con il
contributo di tutte le opposizioni e delle diverse culture politiche e sociali,
culturali in Parlamento, tutte le questioni in campo, come stiamo facendo, e
non solo due titoli.
In realtà, la rivoluzione autentica, ci dice l’autore, è quella ci ci aiuterebbe a vivere insieme, anche nelle difficoltà. A non essere isole, o isole contrapposte. Papa Francesco (p. 119 libro Paglia, Solo L’amore ci può salvare, p.83) riferendosi agli anziani ci ricorda che “l’autoeliminazione degli anziani è una maledizione che spesso questa nostra società si auto infligge. La scomparsa degli anziani, magari rinchiudendoli nei cronicari, è vista dalla Bibbia come una minaccia da parte di Dio”. E’ la minaccia riportata nel libro di Samuele (1 Sam 2, 31-32). Ce lo spiega meglio nella Amoris Laetitia: “la valorizzazione della fase conclusiva della vita è oggi tanto più necessaria quanto più si tenta di rimuovere in ogni modo il momento del trapasso. (…) L’eutanasia e il suicidio assistito sono gravi minacce per le famiglie in tutto il mondo. (Amoris Laetitia, n.48).
E’
la cultura dello scarto, in cui siamo immersi. E riguarda tutta la vita debole
e marginalizzata.
In
Italia e in molti paesi occidentali questo è molto concreto, anche in assenza
di leggi ad hoc. Sulla base di tante esperienze, racconti, penso che sia
importante ricordare a tutti noi, anche come legislatori, che oggi il tema più
diffuso, anche se fuori dall’attenzione mediatica, ignorato, non è quello
dell’accanimento terapeutico, ma quello della desistenza e dell’abbandono
terapeutico, più vasto di piccoli numeri. Fatto di terapie intensive dove
avviene una selezione all’ingresso, spesso, sulla base dell’età.
Vincenzo
Paglia ci ricorda con questo libro che la rivoluzione è stare accanto a chi è
scartato. Lo ringrazio di cuore.