Mario Marazziti - Pagina Ufficiale

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mercoledì 10 febbraio 2016

Presentazione del libro La Pastorale Sociale di Papa Francesco




Un libro utile, importante, non riassumibile. Grazie al curatore, Marco Gallo. Direttore de Pontificio Istituto Juan Pablo II – ma il titolo dell’Istituto si estende anche ai successivi pontificati – dell’UCA, che in maniera quasi sommessa compare in questo volume, ma con una bella introduzione, corposa, più di trenta pagine scritte bene che ci aiutano a diventare familiari con il lessico di Jorge Mario Bergoglio, il Provinciale dei gesuiti argentini, il vescovo e cardinale a Buenos Aires e, oggi e per sempre, papa Francesco.
E che ci mettono a disposizione testi per noi poco noti o sconosciuti dal 1974 al 2014 sul pensiero sociale, la pastorale sociale e il pensiero politico di papa Bergoglio. Quaranta anni, con alcuni scritti dalla rivista della Compagnia di GesùStromata” diretta da padre Juan Carlos Scannone e poi interventi come provinciale a San Miguel, al Colegio Maximo – che lui vuole in periferia e non a Buenos Aires,  poi ausiliare a Buenos Aires, Arcivescovo e cardinale e infine vescovo di Roma, nei nostri giorni. E’ un bel regalo. Una scelta importante dell’editore, Jaca Book. Che mi sembra ha resistito alla tentazione di un titolo più accattivante, che sarebbe stato vero e rispettoso lo stesso, e che poteva essere: “La politica di o secondo Bergoglio”, o “ Bergoglio e la politica”. Perché se c’è una cosa chiara in tutti gli scritti di questa antologia da tenere vicino per ogni uomo e donna di buona volontà e di certo, per chi ha una responsabilità civile, sociale, politica, è che davvero per Bergoglio la politica è “il più alto servizio della carità”, l’arte più alta al servizio degli altri.
Voglio anticipare alcune osservazioni che sono più chiare man mano che si scorre il libro e e le due parti, il pensiero sociale e il pensiero politico. Dove forse, se c’è un appunto da fare, quando si andrà a una ristampa, si possono inserire anche i testi sul carcere e la pena di morte nella prima parte e quello dell’omelia della messa dei parlamentari italiani di papa Francesco nella seconda. E un testo importante perché no dice il cosa della politica ma il come non essere della politica, commentando il brano di quel giorno, sui “sepolcri imbiancati”. Era la prima volta che da papa, Francesco parlava della corruzione come di un peccato che non può essere perdonato, come quello contro lo Spirito Santo. Ma lasciando poi, al termine, aperta una porta. Ricordo lo sconcerto di molti colleghi che si erano come me svegliati alle 5 di mattina o avevano viaggiato di notte, arrivati come per una festa e non per una meditazione quaresimale. Paradossalmente, quello che fu preso per
“distanza” era parte di una speciale familiarità e offerta di misericordia e vicinanza senza possibilità di strumentalizzazioni.
Scorrendo il libro, questi testi che attraversano quattro decenni e due continenti, è innegabile la continuità di un pensiero. Ma anche le stesse parole, le stesse espressioni felici che abbiamo iniziato a conoscere a e ad amare, non sono mai ripetitività. Perché il Vangelo è sempre nella storia.
La seconda osservazione è che il papa più lontano dalla politica e dalla politica europea, italiana, mondiale in tutte le sue forme, è forse il più naturalmente “politico”. Il Vangelo è “politica” nel suo desiderio di cambiare e umanizzare il mondo e liberare alla speranza e all’incontro con Dio. In questo senso per Bergoglio, “tutto è politica” ma la politica non è mai un partito e non è mai solo immanenza, perché l’umanesimo integrale contiene il volto di Gesù e la sua tenerezza.
Il cambiamento e la via della giustizia, per Bergoglio, sono costitutivi del cristianesimo. E un cristianesimo non percorso da un’ansia di giustizia e dal desiderio di accorciare le distanze con i poveri smette di essere tale, diventa religione, imprigiona e mette fuori dal popolo e dalla storia.
In questo senso, molti scritti sono in occasioni e circostanze precise o di fronte a fatti contingenti. Ma anche di fronte a fenomeni sociali come la perdita del lavoro, lo sfruttamento, le migrazioni, i suoi interventi non sono mai “rotondi”, preoccupati di un equilibrio veritativo oltre che sociale. Sono sempre “di parte” perché si rivolgono al cuore. E l’equilibrio, la rotondità sta nell’intera vita cristiana. Il centro del pensiero politico di papa Francesco è sempre la commozione, la compassione, la rivoluzione della compassione. In questo senso la politica non può mai essere semplice amministrazione o rappresentanza di interessi legittimi. Occorre anche visione.
Che cosa ci fa venire in mente come politici e responsabili della cosa pubblica? Cosa ha da dire queste alle democrazie occidentali? A noi?


Come dice Gallo. “Se uno non concepisce il potere come un dono, ma come qualcosa di proprio che ha meritato di ricevere, qui comincia la deviazione. Le deviazioni sono come quelle delle strade, cominciano a poco a poco, fino a quando si allargano e ormai l’orientamento non è quello del dono, ma quello del mio proprio beneficio e profitto” (conversazione radiofonica con il rabbino Skorka e l’evangelico Marcelo Figueroa). E non c’è un Vangelo fuori dalla storia, un cristianesimo fuori dal tempo, che non obblighi a intervenire nella storia e alla responsabilità di lavorare per un umanesimo integrale, che non si debba fare politica. Solo che la “politica di papa Francesco, in continuità con quella del gesuita Bergoglio, è sempre una politica senza partito, implica e arriva sempre alla necessità della rivoluzione della compassione e quindi della “rivolta del cuore”, politica del “Buon Samaritano”. Si ritrovano, leggendo questa antologia, alcune delle visioni che abbiamo iniziato a conoscere e ad amare, per la lucidità e la chiarezza evangelica, la penetrazione umana, in questi ultimi tre anni, da quando Bergoglio è arrivato “dalla fine del mondo” diventando padre universale. Una per tutte la distinzione tra essere “mediatore”, al servizio dell’unità - che vale per la spiritualità ignaziana, per il superiore dei gesuiti, per gli uomini e le donne con responsabilità politica – e diventare un “intermediario”, che punta al proprio interesse. Lo scriveva nel 1981 nel Bollettino di Spiritualità della Compagnia di Gesù. Ma è ancora più chiaro quando interviene per la Pastorale Sociale dell’Arcidiocesi di Buenos Aires proprio per un corso di formazione ed educazione alla politica, da cardinale. Il testo è bellissimo e controcorrente:
“Il politico è fondamentalmente un mediatore che ascolta la voce del suo popolo, scorge le vie praticabili e sa mediare, avanzando in vista del bene comune. Ma in questo mediare si logora, muore: il mediatore perde sempre; perde per far vincere il popolo. Al contrario l’intermediario è colui che, di fronte al conflitto, prende un po’ di qui e un po’ di là, e trova soluzioni raffazzonate (…) in altre parole è un venditore al dettaglio, il droghiere che dice: ‘Compro a quattro, vendo a sei, guadagno due’. Ma il politico non è un intermediario, è un mediatore che mette in gioco la sua vita nel lavoro, e trae da qui la sua nobiltà”.

53 testi che camminano sotto i titoli del “pensiero sociale e politico di papa Francesco”, e che ci fanno ripercorrere questi quaranta anni. Quaranta anni fa non c’era internet. Sono anni in cui in Argentina prende forza la terribile dittatura dei generali, dal 1976 al 1983, dove si succedono Menem e Kirchner, mentre in Europa e Asia entra in crisi il socialismo reale ma le rivoluzioni di velluto lasciano il posto alla vittoria del mercato e a una globalizzazione spesso accusata di essere senz’anima, casa dello spaesamento e della ricerca di radici, in forme estreme, che arrivano fino ai populismi di oggi, al risorgere dei muri e dei fossati e dei fili spinati dentro i confini europei.

E’ in questo mondo in grande trasformazione e in una crisi della politica e delle classi dirigenti a gestire la complessità e i conflitti che sono cresciuti nell’ultimo quarto di secolo che diventano ancora più preziose le parole e la visione libera e lucida di Bergoglio. E le pagine che possiamo qui scorrere. Perché il pensiero di Bergoglio radicato in una sensibilità evangelica gli permette una libertà rara, non prigioniera di schemi ideologici, e gli offre occhiali da vista che gli permettono di vedere in maniera anticipata alcune delle malattie che ci portiamo addosso. E quindi anche di suggerire le risposte. Il suo non è il linguaggio edulcorato né del politically correct né di un politichese o linguaggio ecclesiastico che finisce per coprire parte della realtà. Di fronte ai cartoneros e ai racket di Buenos Aires, siano quelli  della prostituzione o di chi vive in strada, Bergoglio parla di “schiavi” e della responsabilità di non fare - come cristiani – il giro largo, “come l’avvocato e il sacerdote del Vangelo” (il Buon Samaritano). La categoria-chiave è quella della “prossimità”, che diventa anche spirituale, oltre che fisica. Ma non perde mai la sua “fisicità”. I poveri sono la “carne” di Gesù, e le piaghe di Gesù vanno toccate, così anche i poveri concreti. Da chiamare per nome, da guardare negli occhi, da toccare, da non fuggire. E se i poveri sono vittime come quelli che hanno perso la vita nella tragedia della stazione ferroviaria di Once la scelta è tra “anestesia” e “pianto”: “Non dobbiamo abituarci, Padre, al fatto che, per guadagnarsi il pane, si debba viaggiare come bestie”. “Dobbiamo scegliere: o il dolore o l’anestesia, o il pianto o l’ipocrisia”. E il “pianto” diventa una categoria politica, quella per fare le scelte giuste e cercare l’arte del possibile, la politica, per ridurre il male e l’umiliazione, lo sfruttamento, la guerra dell’uomo contro l’uomo. Come nel discorso, centrale a Lampedusa, in località Salina, il 9 luglio 2013. Vale la pena di riprenderne qualche riga: “Ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta, per favore”. E che bello, quel “per favore”, di un papa cortese e gentile, che si commuove  e prova sdegno di fronte all’ingiustizia e al dolore. Poi, lo ricordiamo, è stata una omelia punteggiata da una espressione: “Adamo, dove sei?”, “Dove sei Adamo?”,  “Dov’è il tuo fratello?”. “Sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma vorrei che ci ponessimo una terza domanda: ‘Chi di noi ha pianto per questo fatto – i morti di Lampedusa, ancora prima della strage del 3 ottobre 2013 e successive – e per fatti come questo? … (p.193 del libro)  la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”.  E poi… “Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza”.
Si potrebbe dire che c’è piena continuità nel pensiero sociale di papa Bergoglio. E’ innegabile la consonanza con il magistero di Buenos Aires quando al santuario di Nostra Signora degli emigranti, alla Boca, nelle città create dagli emigranti, il cardinale porteno svolge una meditazione sulla xenofobia: “A parole nessuno odia i migranti. Ma quella xenofobia sottile – che forse trae origine dalla nostra vivacità creola – ci porta a chiederci: come posso usarli? Come posso approfittarmi di questa donna o di questo uomo, privi di documenti, entrati illegalmente nel mio Paese, che non conoscono la lingua, che sono minorenni e non hanno nessuno che li protegga?”. Ma è anche vero il contrario. Che una visione evangelica, la visione evangelica di papa Bergoglio, è radicata nel tempo e non nello spazio, perché aperta allo Spirito. E’ così che i suoi rilievi anche sociologici sulla latente, “pulita” xenofobia dei suoi concittadini, diventano una domanda radicale per l’intera politica europea e a tutta la politica  di fronte alla tragedia della guerra e del Mediterraneo.

“Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza”:
Per papa Bergoglio non c’è cristianesimo e non c’è Chiesa senza “popolo”. Il popolo è un popolo misto, non solo poveri. Anche se i poveri sono “la carne sofferente di Cristo” e il cristianesimo ha una dimensione politica insopprimibile, quella che spinge verso le “periferie esistenziali”, che impone di costruire unità e non contrapposizione, solidarietà sociale al posto di uno scontro che penalizza i più deboli. Ma questa dimensione politica insopprimibile del cristianesimo è senza partito: e il luogo profetico e preferenziale è il “popolo” in senso non classista, un popolo da accompagnare con la capacità di accompagnare “ciò che di positivo, la ricchezza, che il povero ha da offrire”. E il momento ermeneutico è la “pietà popolare”. Continuamente Bergoglio opera un ribaltamento, che impedisce di ridurlo nell’angolo di una visione ideologica progressista o semplicemente sociale. E così i poveri non sono solo oggetto, ma parte determinante della capacità di cambiare il mondo con la delicatezza e la compassione evangelica. O le “Reducciones” dei gesuiti nel Rio della Plata, come tentativo di affrancare gli indigeni dai coloni, uno straordinario tentativo di affermazione della libertà cristiana, diventano tipologiche della necessità di restituire valore al lavoro come forma di guarigione per l’intera società e sfida trascendente per i fratelli gesuiti.

Per Bergoglio non c’è modo di restare cristiani senza diventare “come l’avvocato o il sacerdote” della parabola, ovvero prigionieri della tentazione di ghettizzazione della propria identità. Se nel Novecento, con l’avvento della secolarizzazione, la Chiesa si è misurata con la realtà dell’essere minoranza, quasi una accettazione umile e di rinuncia al trionfalismo, la tentazione è diventata più forte con la crescita dell’urbanesimo e di megalopoli. In un mondo globale e globalizzato, nel supermarket dell’offerta anche religiosa, la Chiesa ha spesso optato per battaglie culturali a difesa dei propri valori, o del diritto naturale accettando nell’intimo la riduzione a minoranza. E “estraniandosi dalla globalizzazione”. Alberto Beto Perez scrive: “La Chiesa è sempre stata e si è ritenuta un popolo, la rivelazione è a un popolo e l’annuncio genera il popolo di chi lo accoglie. Però, dopo il Concilio, l’idea di popolo ha iniziato a sfocarsi fino ad assumere i connotati della astrazione o della riduzione a comunità”. Ha notato Andrea Riccardi come una teologia che nasce dalla città, incarnata nella megalopoli post-moderna, è andata esaurendosi in Europa, dopo l’esperienza parigina dei preti operai nell’immediato dopoguerra e negli anni ’50, mentre ha vissuto e ripreso vigore in America Latina. E affonda qui il pensiero e l’insegnamento di papa Francesco. Mentre favorisce un ripensamento del rapporto tra Chiesa e territorio non fondato su un’idea di potere, ma sulla convinzione che mettere in contatto il popolo, il Vangelo, la pietà popolare, il vissuto, le persone concrete crea una rivolta delle coscienze e cambia il mondo in meglio. E’ una idea che contiene un ripensamento profondo della stessa presenza ecclesiale tra gli uomini e le donne, nella città. Delle parrocchie stesse. Para oikìa, vicino alle case, ma diventate spesso crocevia affollati ma indipendenti dal resto della città. Mentre Bergoglio crede che l’uomo e la donna vanno incontrati negli spazi dove vivono e in megalopoli gran parte del tempo della vita è altrove, per il lavoro, il traffico, per persone in movimento e senza appartenenza nella città. La forza della parrocchia territoriale diventa così nella pastorale sociale bergogliana non l’ubicazione geografica, ma la capacità di instaurare una vicinanza con le persone e le famiglie. E’ così che parte la campagna del 2008 a Buenos Aires per “santuarizzare le parrocchie”, un modo per fare arrivare l’annunzio di grazia e di salvezza e la misericordia accanto a tutti. Una idea che forse si può ritrovare anche nell’idea originaria de La Sagrada Familia di Gaudì, che nella grande pianura operaia  di Barcellona doveva essere letta anche da lontano e parlare già nell’architettura della tenerezza fino a dare la vita di Gesù, in quei tratti a forma di stalagmiti che fanno della facciata della Sagrada Familia una bellezza unica al mondo, ma che contengono nell’architettura esterna il mistero della morte e risurrezione di Gesù, le ossa del calvario e la capacità di rivivere a vantaggio di tutti.

Visto dalla politica che effetto fa l’insegnamento e il pensiero di Bergoglio sulla politica? Il cardinale di Buenos Aires rileva come la confusione tra strumenti e fini è frequente e gli strumenti “si ipostatizzano”, sia passa dal partito alla partitocrazia. Vede le “correnti” interne, ne vede la paralisi, e la perdita di “anima”. Ma la politica non è cattiva in sé, anzi. “Il mio è dunque un invito a riscoprire la politica, a restituirle l’anima che la partitocrazia ha rubato”. “Il buon cattolico, abitante e cittadino, si immischia di politica dando il meglio di sé perché il governante possa governare”.

La sua risposta non è l’antipolitica. La differenza tra un “abitante” e un “cittadino” sta proprio nel fatto che “un cittadino deve vivere necessariamente con utopie per il bene comune”.
La crisi della politica è evidente. Gli è evidente come debolezza ricorrente, acuita dall’anonimato dei processi decisionali e dalle forze in campo nella globalizzazione. Usa espressioni come “i governanti sembrano ostaggio di forze che non possono controllare. I centri decisionali sono sempre più lontani e anonimi. Bisogna dunque essere consapevoli che in questo mondo globalizzato il raggio d’azione e lo spazio di movimento dei politici si è molto ridotto” (sono pensieri di 15 anni fa, estremamente attuali).

Ma di fronte al conflitto l’unità rimane un bene prevalente. Come l’umiltà: “Due domande: ‘Amo il mio popolo per servirlo meglio? E sono umile da sentire le ragioni degli altri per scegliere la migliore strada?’. E per “riabilitare la politica – dice nel discorso alla classe dirigente brasiliana del luglio 2013 - il futuro esige anche una visione umanista dell’economia e una politica che realizzi sempre più e meglio la partecipazione della gente, eviti gli elitarismi e sradichi la povertà. Che nessuno sia privo del necessario, e che a tutti sia assicurata dignità, fratellanza e solidarietà: questa è la strada proposta”.

La politica rinasce “tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta” se si sceglie per l’“opzione sempre possibile: il dialogo”. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità. Per il papa il futuro è impossibile “senza un forte contributo di energie morali in una democrazia che rimanga chiusa nella pura logica o nel mero equilibrio di rappresentanza di interessi costituiti”.

Il contrario dell’arroganza. Dei populismi. Di una politica urlata che esiste sempre a partire da un nemico. E il contrario della mera difesa dell’esistente.



Non posso non osservare a margine di queste considerazioni come sia un segno – negativo – dei tempi, che ci si possa mobilitare sui diritti civili, con passione, e come da anni non vi sia una mobilitazione almeno analoga di fronte a 35 mila morti nel Mediterraneo, 1000 bambini solo negli ultimi mesi. Di fronte a una guerra più lunga della guerra mondiale. A 11 milioni di profughi. Penso che anche la salvezza dell’Europa venga dalla capacità di piangere e di essere diversi. Dalla capacità di fermare la guerra con il coraggio della politica e non la crescita fallimentare della guerra. E di attrarre in questo modo quanti pensano che qui non c’è più futuro e magari sono presi dalla fascinazione di una rivoluzione malata e abbagliata dalla violenza, come quella di chi sceglie di diventare un foreign fighter.

Mario Marazziti


PAPA FRANCESCO
Pastorale Sociale
A cura di Marco Gallo

Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina – Roma

8 febbraio 2016  -  Intervento di Mario Marazziti